Non ignoriamo il ruolo delle spinte etniche

Il Novecento e quella sua appendice già ancora più tragica che è l’inizio del ventunesimo secolo, come un campo di battaglia dove religione e ideologia religiosa, comunque la violenza della fede, è il motore primo di ogni evento: è quanto sostiene Michael Burleigh nel suo In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo da Hitler ad Al Qaeda (Rizzoli, pag. 634, euro 24). Così, comunismo e nazismo riprendono quel filo rosso-sangue che inizia dal giacobinismo illuminista e lo trasformano in messianica fede in un mondo nuovo: «Benché vi fossero notevoli differenze tra questi regimi totalitari, essi all’origine condividevano l’entusiasmo e una serie di scopi (o piuttosto di tentazioni) di carattere eretico, come modellare «l’uomo nuovo» o realizzare il paradiso in terra. I totalitarismi metabolizzarono il paradiso in terra».
Tutto chiaro? Non proprio. Perché è altrettanto suggestivo sostenere, per la Storia del Novecento, per i conflitti che cominciano dalla Grande guerra e vanno avanti sino alla Seconda guerra mondiale, e ancora per la Storia che, contro ogni previsione, è ricominciata dopo il crollo del Muro di Berlino, che «tutto fa pensare che gli avvenimenti del periodo successivo si collochino al di là delle contrapposizioni tra valori e ideologie valide per il XX secolo. Non si fondano su un conflitto tra universalismi, ma piuttosto sul rinascere di sensi di appartenenza che appaiono arcaici, su ethnos e nazionalità, sulla validità e sull’efficacia di una lunga memoria e di un passato lontano in cui è radicata questa memoria stessa». Dai Balcani al Medio Oriente, allora, nazionalismi e rivendicazioni geografiche, secolari odi etnici e perfino pulsioni tribali, pesano più di qualsiasi ideologia politica e perfino di ogni fanatismo religioso: lo sostiene Dan Diner in Raccontare il Novecento (Garzanti, pag. 275, euro 9,50), dimostrando che gli ultimi cento anni sono un labirinto di spinte etniche e geografiche, di impulsi nazionalisti che hanno fatto e sfatto nazioni e rivoluzioni, provocato guerre, impedito paci. Perfino le storie e i casi personali, come quelli che Diner racconta magistralmente e che portarono all’ascesa di Hitler dove, senza il caso, senza gli intrighi di Von Papen e le indecisioni di Hindenburgh, forse Hitler non sarebbe mai diventato cancelliere. Non solo, ma Diner, e forse questo è l’aspetto più originale, parte dalle periferie dell’Occidente e dall’Oriente della terra, individuando la sorgente delle guerre e delle rivoluzioni europee.
Che la Storia non sia una scienza esatta è indiscutibile. Ma è curioso come, contemporaneamente, questi bellissimi libri, di due grandi storici, usino chiavi completamente diverse, eppure egualmente valide, per cercare di aprirne le porte più nascoste e blindate. I libri di Burleigh e di Diner sono scritti, soprattutto il primo, con l’abilità e la gradevolezza che solo gli storici di cultura anglosassone conoscono. E non importa che usino lenti diverse con cui, entrambi, riescono a guardare gli eventi con uguale lucidità e convinzione e abbondanza di documentazione. Il risultato finale non è un senso di vertigine e strabismo.

Ma piuttosto la consapevolezza che i volti della Storia sono talmente numerosi e contraddittori, e le sue maschere così abili, che chiunque riesca a smascherarne un tratto, qualunque lente usi, è benvenuto. Purché non pretenda di mettere al bando ogni altra lente d’interpretazione.

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