Non santificate quel sindacalista, non capì Stalin

«La figura di Giuseppe Di Vittorio appartiene a pieno titolo alla storia di tutti gli italiani. La sua opera fa parte del patrimonio ideale della Repubblica e della Nazione». Queste le parole pronunciate ieri dal presidente della Camera Gianfranco Fini alla presentazione della fiction «Pane e libertà» ispirata alla figura dello storico leader della Cgil. Sono parole che sottoscrivo senza alcuna perplessità.

La vicenda di quel povero ragazzo pugliese, quasi analfabeta e orfano di padre, che divenuto uomo seppe lottare per la libertà sua e degli umili come lui, merita ricordo, rispetto, ammirazione. Spero soltanto - non avendo avuto modo di vedere il filmato - che si sia evitato, in questa biografia, il dolciastro che è sempre in agguato. Per la sua genuinità umana e per la sua dura coerenza politica, il comunista Di Vittorio non può diventare un santino del politicamente corretto. Era impregnato d’ideologia fino al midollo, anche se riuscì a non diventare mai schiavo del settarismo. Manteneva un forte contatto con la «base» che allora era composta soprattutto da operai e contadini, non come oggi da pensionati.

Giusto rievocare lo strappo doloroso con Togliatti dopo la rivolta di Budapest. «Il Migliore» - che nell’occasione diede il peggio di sé - lo costrinse a un penoso mea culpa per avere riconosciuto la matrice popolare dell’insurrezione ungherese. Dopo quella resa «scoppiò a piangere... diceva singhiozzando che la classe operaia non meritava cose simili». Teniamolo bene a mente, tutto questo. Senza fare a Di Vittorio il torto di presentarlo come un sentimentalone.

I dirigenti comunisti battevano l’Urss staliniana molto più di chiunque altro, ma sembrava non vedessero e capissero nulla. Le diagnosi economiche del Congresso che la Cgil tenne a Genova nell’ottobre del 1949 furono scoraggianti per superficialità e faziosità. L’Italia, fu detto, va alla rovina, importa troppo dagli Stati Uniti ed esporta troppo poco nei Paesi dell’est, meravigliosi clienti potenziali. L’avvenire era buio. Reso tale dalle catastrofiche adesioni, volute da De Gasperi, al piano Marshall e al Patto Atlantico. La scissione sindacale avvenne soprattutto perché i comunisti egemonizzavano al di là del tollerabile, incessantemente proponendo come stupendo il modello sovietico, la Cgil. Che poi Di Vittorio riuscisse, con buon senso, a intendersi con il leggendario presidente di Confindustria Angelo Costa, è altra faccenda.

Gli esseri umani,

soprattutto quelli a forte caratura - e di Vittorio sicuramente lo era - sono complessi. Di Vittorio è stato intrepido e onesto nel difendere le sue idee. Ma le scelte decisive per il «miracolo» italiano le ha fatte De Gasperi.

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