«Non si può costruire uno spirito unitario con secoli di ritardo»

Romano Bracalini è un giornalista e uno storico molto attento alle vicende del nostro Paese. Nei suoi libri è riuscito a cogliere pensieri e costumi degli italiani (Otto milioni di biciclette - La vita degli italiani nel Ventennio; Paisà. Vita quotidiana nell’Italia liberata dagli alleati) dedicandosi anche, con cura meticolosa, alla ricostruzione del periodo risorgimentale (Cattaneo. Un federalista per l’Italia unita; Non rivedrò mai più Calatafimi; L’Italia prima dell’unità). Sul tema «cosa vuol dire essere italiani?» ha idee molto chiare.
Esiste l’«italianità»? Un quid, un qualcosa che ci consente di identificarsi subito come popolo?
«Il fatto che il dibattito su questa questione si apra così tardi dà subito l’impressione che il dibattito venga fatto per correre ai ripari. Questa è già una risposta... In Francia e in Germania si discute di questi temi da moltissimo tempo ma nessuno si pone davvero il problema se esista o meno un’identità nazionale, è data per scontata».
Invece da noi manca un’identità?
«Secondo me un’identità italiana non esiste. Esiste un simulacro di identità. È un’evidenza storica che il nostro Paese ha raggiunto l’unità in un modo singolare e dopo quattordici secoli di divisioni. Anche la Germania si è unificata tardi ma con le sue forze, o meglio con quelle della Prussia, e con un progetto largamente condiviso... L’Italia è stata unificata da una monarchia mediocre, molto poco italiana, che si è mangiata l’Italia foglia a foglia, come un carciofo. Non sono le basi giuste per un comune sentire».
Ma allora che modello possiamo proporre a noi stessi e agli immigrati che arrivano nel nostro Paese?
«Altri Paesi come la Francia affrontano il problema da molto più tempo e nonostante tutto sono riusciti a non farselo sfuggire di mano. Qui da noi mi sembra evidente che lo Stato sia in grande difficoltà nel creare valori condivisi. E dovendo confrontarsi con il fenomeno dell’immigrazione i risultati sono evidenti».
Quello che è accaduto in Calabria?
«La situazione è precipitata perché lo Stato lì non esiste. Nel nord del Paese l’immigrazione ha un impatto diverso perché sono diverse le condizioni materiali e la presenza delle istituzioni».
Come si fa a ricostruire l’idea di nazione partendo da questi dati di fatto? Perché non è che, dopo centocinquant’anni, ci si può limitare a dire: beh ci siamo sbagliati...
«Bisogna prendere atto della morfologia del Paese, tenendo conto delle diversità. Noi abbiamo una lunghissima tradizione di pensiero regionalista che è rimasta sempre minoritaria e inascoltata. È quella la via da seguire. Bisogna creare il federalismo che non è per forza quello di marca leghista. Pensi a Cattaneo o alla lunga tradizione delle autonomie siciliane. Quello è il meglio della nostra storia... Non si possono mettere a posto le cose guardando, invece, sempre al peggio. Al centralismo, alla burocrazia...».
Ma si può fare uno Stato senza nazione?
«Gli svizzeri ci sono riusciti e piuttosto bene. E spesso il nazionalismo, soprattutto dove la nazione non c’è, si trasforma in un meccanismo pericoloso. Crispi capendo che l’unità nazionale era debolissima puntò sulle guerre d’Africa. E dopo è arrivato l’imperialismo straccione di Mussolini. L’otto settembre è stato il fallimento definitivo di quel tipo di patria e di quel tipo di unità... Oggi siamo ancora qui a raccoglierne i cocci. Senza contare che per lungo tempo la chiesa cattolica ha avuto le sue responsabilità nell’impedire la creazione di uno spirito nazionale e che dopo il ’45 il partito comunista non ha certo contribuito a rafforzare un ideale nazionale. Sino agli anni Ottanta il Pci aveva una sorta di patriottismo sociale ma sentiva l’Urss come la vera nazione di riferimento...».
Un luogo comune: gli italiani si sentono italiani solo e soltanto in odio a qualcun altro...


«È un retaggio del nostro antico spirito di fazione è quel “Dio stramaledica gli inglesi” con cui il fascismo ha dato il peggio di sé. È sottocultura, è provincialismo. Come diceva Cattaneo per amare la propria patria non c’è bisogno di disprezzare le altre. Spesso però in Italia per mancanza di altro ci si è attaccati a quel disprezzo».

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