Ma il Nord produttivo non sta con la sinistra

Nella cultura politica italiana solo il liberalismo ha dato espressione alle autonomie territoriali. Difficile ora che artigiani e piccoli imprenditori finiscano per riconoscersi in Vendola & C.

Ma il Nord produttivo non sta con la sinistra

Stefano B. Galli

Solo fino a un certo punto il federalismo è una questione di politica delle alleanze, tanto meno con il Pd di Bersani. Il federalismo, infatti, non è un ordine istituzionale e politico ereditato dal passato, da riscoprire nella polverosa chincaglieria dell’arsenale ideologico della storia delle istituzioni e delle elaborazioni dottrinarie del tempo che fu. Elaborazioni peraltro trascurate dall’evoluzione storica di questo Paese, che si appresta a celebrare il suo secolo e mezzo di vita. Quindi sconfitte. Basta fare i nomi di Cattaneo e Ferrari, Sturzo e Salvemini, giusto per tirare in ballo la tradizione liberale, quella socialista e quella cattolica.
Nell’età della globalizzazione, è il presente che vuole federalismo. Nei fatti, la globalizzazione rimette in discussione la sovranità degli Stati, che fanno fatica a governarne i processi; una sovranità oltretutto erosa dalle strutture sovranazionali e dalle realtà territoriali. Sono queste ultime che la fronteggiano: devono arginare i risvolti negativi ma possono pure sfruttare le opportunità di crescita e di sviluppo connesse all’economia globale. Alla classica dinamica tra Stato e mercato s’è ormai sostituita la dicotomia tra la comunità territoriale e il mercato globale. Sono quindi necessarie statualità agili e snelle, fortemente decentrate - per quanto attiene alle strutture burocratiche e amministrative, economiche e finanziarie, istituzionali e decisionali - nelle comunità territoriali.
La complessità della globalizzazione risulta governabile solo di fronte a radicali processi di federalizzazione istituzionale e fiscale. E bisogna chiedersi quale futuro può avere uno Stato burocratico e accentratore, pieno di zecche e di parassiti, pachidermico nella sua struttura e assai costoso, indebitato sino al collo, che non funziona, alimenta e non combatte le piaghe del clientelismo, della corruzione, dell’evasione fiscale, dell’irresponsabilità degli amministratori (gli sprechi ammontano a oltre ottanta miliardi di euro l’anno, circa cinque manovre finanziarie). Si tratta di uno Stato, quello italiano, che assorbe più del cinquanta per cento del Pil per mantenere se stesso.
Una classe politica seria e responsabile avrebbe pensato di risolvere questi problemi, adottando - per esempio - il criterio dei costi standard in luogo della spesa storica (che premiava chi spendeva di più e peggio), almeno una trentina d'anni orsono. Senza aspettare il secondo millennio e il federalismo fiscale. Senza ideologizzazioni né partitizzazioni, ma per il bene del Paese. Indipendentemente da quella politica delle alleanze che consente alla Lega - in linea teorica - di muoversi con disinvoltura. Perché l’obiettivo è quello del federalismo, costi quel che costi. Federalismo che è l’unica ricetta efficace per risolvere i mali endemici e strutturali del Paese e per tenerlo ancora insieme al cospetto delle profonde fratture che lo scompongono e si approfondiscono ogni giorno di più.
Il federalismo ha una solida tradizione teorica, ma il suo trapianto nell’arena politica lo si deve a un movimento, la Lega Nord di Bossi, interprete - sin dalle origini - delle istanze delle comunità territoriali della valle del Po. Sulla cultura politica di queste comunità territoriali ha gravato per decenni una sorta di non expedit a oltranza: i soggetti economici e produttivi pensavano e guardavano alla fabbrichétta e alla villétta, senza preoccuparsi della politica. Anzi, conferivano una delega in bianco ai partiti anticomunisti della Prima repubblica, in particolare alla Dc. Ma quando si sono accorti che la rappresentanza e la tutela di interessi garantita da questi partiti era insufficiente, perché lo Stato - non potendo più drenare il debito pubblico - cominciava a mettergli le mani in tasca, a inasprire severamente la pressione fiscale per mantenere le politiche assistenziali a favore del Mezzogiorno, hanno trovato la loro rappresentanza politica nella Lega Nord. È difficile pensare che questi soggetti economici e produttivi, piccoli imprenditori e lavoratori autonomi, possano guardare a sinistra, a Vendola e a Pisapia quali alleati per realizzare il federalismo.
Nella cultura politica italiana, il liberalismo classico s’è ispirato alle dottrine inglesi, maturando una notevole sensibilità per il self-government, l’autonomia e l’autogoverno delle comunità territoriali. Basta fare i nomi di Cavour e Minghetti, che elaborò un progetto di decentramento amministrativo basato su sei macroregioni all’alba dell’Unità.

È questa tradizione che il neo-liberalismo deve riscoprire. Solo così disegno di federalizzazione proposto dalla Lega e richiesto dalla globalizzazione, indispensabile per il Paese, potrà andare in porto senza indugi né incidenti di percorso.
stefano.galli@unimi.it

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