La notte di trattative che quadra il cerchio

Nello scontro generazionale dietro il complicato risiko vince la linea verde del Pdl. Quel no al leghista Dozzo

da Roma

Un gioco a incastro complesso come una partita a scacchi. Un incrocio di storie, biografie e di partiti che non ha risparmiato palpitazioni impreviste e delusioni cocenti. Un tourbillon di rivelazioni e di eclissi che ha assunto talvolta coloriture scespiriane. Silvio Berlusconi ha chiuso la sua quarta squadra di governo in meno di un mese, con una gestazione complessa che non ha risparmiato i colpi di scena.
Ne esce fuori una squadra molto più giovane di quella che era stata ventilata - dallo stesso Cavaliere - in campagna elettorale, a partire dalla delegazione del suo stesso partito. Alla fine, su ventuno ministri, quattro sono donne, nove hanno meno di quarant’anni. E proprio su questo crinale generazionale si è consumato lo scontro più duro della giornata. Quello che ha visto prevalere l’astro nascente di Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera, proiettata alla guida del ministero per le Politiche giovanili su altre compagne di partito, dopo la prova convincente a Montecitorio. Il nodo era complessissimo, e riguardava soprattutto gli equilibri di An. Si era liberato il ministero di Gianni Alemanno (dopo la vittoria per Roma) e Berlusconi chiedeva a Gianfranco Fini di mettergli a disposizione due donne. I nomi sono quello della stessa e Meloni e di una dirigente di grandissima esperienza, come Adriana Poli Bortone. Ma Fini non molla sul nome di Andrea Ronchi, che vuole fortissimamente ministro. Berlusconi preferirebbe un’accoppiata «rosa», anche perché il Cavaliere ha un problema correlato: far entrare al governo il portavoce di An gli crea un problema ulteriore con Paolo Bonaiuti, a cui non è riuscito a garantire il dicastero promesso, quello dei Beni culturali. Alla fine, dopo un lungo e doloroso braccio di ferro, passano la Meloni e Ronchi: la Poli Bortone non ce la fa. Ma anche tra gli azzurri c’è un’esclusione clamorosa, quella di Maria Vittoria Brambilla. I retroscenisti del centrodestra sostengono che la chiave di tutto è la serata di lunedì. Quando il Cavaliere, arrivato alla stretta, fa un giro di telefonate in piena notte per chiedere a molti dei papabili che rischiavano l’esclusione se erano disposti ad accettare l’elezione alle vicepresidenze di Camera e Senato. Ovviamente è una bella diminutio. La Brambilla dice no. Molti, tra cui uno che poi rientra in pista, Raffaele Fitto, accettano. Il Cavaliere ha premiato anche chi era disposto a sacrificarsi. Chissà, le variabili sono state molte, e complesse: ad esempio il ruolo giocato dal Colle. Ormai non è un mistero che il premier incaricato ha giocato di sponda con Napolitano, a partire dall’incontro di dieci giorni fa. Il primo risultato di questo entente, è stato il no allo spacchettamento delle poltrone, che avrebbe risolto molti problemi di «spazio». Invece, con la formula dei 12 più 9 (senza portafoglio), i sacrifici sono stati necessari. Ad esempio nella Lega, dove non è un mistero che Umberto Bossi volesse Giampaolo Dozzo, una new entry alle Politiche agricole. Lo hanno fermato, pare, anche i veti di qualche associazione, con cui l’uomo del Carroccio non aveva buoni rapporti. E allora dentro Luca Zaia, il 40enne di Treviso, il carroarmato elettorale leghista della Marca, l’uomo che ha vinto con o senza alleati, nei territori dove la Lega è più forte, all’ombra del leghismo «gentiliniano». E poi, per compensazione, l’altro piccolo colpo di scena. La nomina dello stesso Senatùr, con un ritorno che Bossi aveva annunciato in campagna elettorale, ma su cui molti non avrebbero scommesso. Persino il Quirinale poteva avere delle riserve su un impegno ministeriale del leader del Carroccio. Ma alla fine il gioco dei veti ha propiziato il suo ritorno. Così come il ritorno di un altro dei pochi «veterani», del 1994, Bobo Maroni. Il leghista varesino ha ottenuto gli Interni, perché la Lega non si sentiva garantita sulla sicurezza da nessuno, nemmeno da Gianni Letta. E che dire di Gianfranco Rotondi? Forse persino l’aver ospitato a casa sua una delle riunioni più delicate tra Berlusconi e Fini gli ha fornito le carte giuste per essere l’unico «piccolo» che ha ottenuto un ministero. Quanto agli equilibri di Forza Italia, qui il Cavaliere si è appoggiato alla vecchia guardia azzurra, da Schifani, a Verdini, a Vito, a Scajola, per promuovere un grande rinnovamento, di cui il volti-simbolo sono quello di Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. Non è un mistero che quest’ultima, in grandissima ascesa nell’empireo azzurro, abbia cementato il suo successo con una serie di interventi convincenti nella campagna elettorale televisiva.

Dopo tanti astri nascenti, dopo tante dame «azzurre» che hanno bruciato come meteore, alla fine ha vinto il passo della podista, di una 31enne che ha iniziato a venti come semplice volontaria. E insieme a lei sono stati promossi altri due trentenni: Angelino Alfano e Mara Carfagna. E meno male che doveva essere un remake.

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