La Juventus ha finalmente le chiavi di casa. Sua. Uno stadio bellissimo, laddove ce n'era uno più grande ma meno affascinante, anzi così freddo da portare il nome di Delle Alpi. La festa di ieri, addì otto di settembre duemila e undici, è stata romantica e nostalgica, dunque pericolosa, rancorosa per chi è costretto a vedere una realtà diversa, quella attuale, quella degli ultimi cinque anni, lontanissima dai volti, dalle storie, dai fotogrammi di Zoff e di Boniperti, di Furino e di Capello, di Lippi, del postino di Siviglia Luis Del Sol, di «Cochi» Lucidio Sentimenti, leggenda di anni novantuno, quello che calciava il pallone allenando Zoff e urlava: «Dino senti come fischia la biglia!», e di tutti quelli che si sono ritrovati come vecchi compagni di scuola, diversi per gli anni, per il colore dei capelli, per la taglia degli abiti ma uguali per la fede di un tempo, per il senso di appartenenza a un club unico, odiato, anche odioso, insultato e amato.
Certi raduni sono trappole per il cuore, si ritorna al passato e non si riesce a pensare al futuro, il calcio non ha domani, ha memoria dolce e respinge le chiacchiere moderne di progetti e ranking, il calcio ha sempre fame e Torino ha la pancia vuota da troppo tempo. I ricordi di ieri hanno rigato il volto di Mariella Scirea e dei parenti di quei trentanove che finirono di tifare e di vivere in uno stadio pieno di buio e di sangue, lHeysel. Loro le vere stelle della storia juventina, bianchi palloncini liberati nel cielo, insieme con i veri Agnelli che non ritrovo tra i loro eredi, al punto che Andrea, il presidente attuale, ha detto che l'idea dello stadio «nacque a metà degli anni Novanta» evitando, ahilui, di ricordare che quello era il tempo della presidenza di suo padre. Non voleva citare Antonio Giraudo, l'artefice? Non voleva parlare di Luciano Moggi? Non ha accarezzato nemmeno la memoria di suo padre! È stato un cucchiaino dal gusto aspro in mezzo a una serata dolcissima, piena di cose antiche in una struttura spaziale, con i colori della bandiera italiana ad abbracciare l'anello dello stadio, le luci del tramonto a rendere ancora più magica l'aria. Quando, sul prato, è apparso, disegnato dai figuranti il numero 6 il popolo bianconero ha ripensato a Gaetano, Scirea e mi auguro che la curva del Delle Alpi, dedicata al campione e lordata dai teppisti, abbia altri inquilini degni del cognome e della carriera del ragazzo di Cinisello Balsamo.
Lo stadio di calciopoli, lo dico per fare contenti e riempire di cianuro la tazza dei sepolcri imbiancati del nostro calcio, è stato abbattuto ma la Juventus sa che la cronaca, i risultati di quel tempo non possono essere demoliti, cancellati nemmeno dalle sentenze dei giudici, perché il campo disse la verità, lo ha ribadito il commissario tecnico della nazionale inglese, Fabio Capello: «Quei titoli devono essere ridati alla società». Impossibile sfuggire all'aggancio polemico, gli scudetti, tutti e ventinove, anche quelli annullati dal tribunale, sono affissi nel corridoio degli spogliatoi, proprio di fronte allo stanzone della squadra ospite, quasi un monito, quasi una sfida e posso immaginare quale sarà la reazione, il comportamento, la postura di alcuni avversari quando sfileranno davanti a quegli scudi tricolori.
E Andrea Agnelli, con la voce emozionata, seguito in ogni parola dallo sguardo stupito e commosso di Allegra, la madre più tifosa di qualunque altra tifosa della Juventus, dall'applauso caldo del cugino John, ha lanciato finalmente l'urlo della gente bianconera, «che ha vinto sul campo, il campo che non mente, che dice sempre la verità». La musica scelta per il momento del taglio del nastro, portato da Cristina Chiabotto, è stata emblematica: «Scandalo al sole», qualsiasi riferimento al duemila e sei deve essere puramente voluto. L'ultimo quadro, con la panchina a centrocampo, illuminata da un riflettore nel buio di Torino, ha visto protagonisti unici, esclusivi, storici, Giampiero Boniperti e Alessandro Del Piero. «Per la Juventus vincere non è importante, è l'unica cosa che conta» ha ricordato il presidente onorario, fresco dei suoi ottantatre anni, sessantacinque dedicati alla sua squadra.
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