I libici che hanno combattuto per Gheddafi li mandano a casa con una pacca sulle spalle a patto che abbandonino le armi. Se invece sei nero e ti hanno beccato a Tripoli durante la battaglia per la capitale non hai speranza. Innocente o colpevole ti bollano come mercenario ammassandoti assieme ad altri sfortunati africani in sordide ed improvvisate celle.
In Libia gli immigrati sono sempre stati trattati come gente di serie B, se non peggio, ma adesso la pelle nera ti porta dritto in galera o verso una brutta fine. Peter Bouckaert, di Human Rights Watch, che ha visitato diverse prigioni gestite dai ribelli e piene di neri ha dichiarato al New York Times: «Lo stato di detenzione riflette un profondo sentimento razzista e anti africano della società libica. È chiaro che molti dei prigionieri non erano soldati e non hanno mai imbracciato un'arma in vita loro». Gheddafi aveva assoldato mercenari dai Paesi subsahariani, o costretto a forza dei clandestini in Libia ad arruolarsi, ma nel caos della caduta del regime si fa di tutta l'erba un fascio.
L'inviato del New York Times a Tripoli ha visitato alcuni improvvisati centri di detenzione nella capitale constatando che i prigionieri «immigrati sono in numero ben superiore rispetto ai libici», come se al fianco di Gheddafi avessero combattuto solo mercenari. Per i locali basta consegnare le armi e promettere di non imbracciarle e sei libero. I più pericolosi vengono posti agli arresti domiciliari. In scuole, magazzini fatiscenti e stazioni di polizia vengono invece detenuti come bestie centinaia, forse migliaia di africani con la pelle nera. «Li abbiamo presi con le armi in pugno» sostengono i carcerieri. Poi si scopre che gran parte dei 300 neri ammassati in uno dei centri detenzione ha meno di 16 anni. Molti giurano di non aver mai imbracciato un fucile e alla fine gli stessi ribelli ammettono che sono solo «sospettati» di essere mercenari. In una stazione di polizia viene mostrato come un trofeo Mohamed Amidu Suleiman, 62 anni, del Niger accusato addirittura di stregoneria. La prova sarebbe una specie di rosario di pietre per chissà quale rito anti ribelli.
Ai visitatori dei primitivi centri di detenzione sono fornite delle mascherine per sopportare il tanfo dei disgraziati abbandonati a se stessi. L'inviato del New York Times fa notare che i pochi libici dietro le sbarre sono trattati molto meglio rispetto alla massa di africani, anche se erano spie o combattenti conosciuti. La giustificazione più usuale degli insorti è «siamo tutti fratelli». I neri, invece, sono paria, anche se fra loro non mancano i libici che non vengono creduti. Abdel Karim Mohammed, 29 anni, è nato nelle regioni desertiche del Sud, dove la gente ha la pelle scura come il carbone. In mezzo ad altri disgraziati che sostengono di essere stati portati via per strada o prelevati a casa, senza aver fatto niente, sussurra: «Non sappiamo perchè siamo qui». Un vecchio vizietto dei ribelli quello di spacciare i connazionali "neri" della regione del Fezzan, arruolati nell'esercito, come mercenari.
In Libia, prima della guerra civile, c'erano 2 milioni e mezzo di immigrati, quasi la metà clandestini. Ogni tanto qualche africano in viaggio verso Lampedusa veniva irretito da una paga sicura nelle milizie del Colonnello. Però senza i "neri", utilizzati come forza lavoro a basso costo, il Paese non si risolleverà mai. Se ne rende conto pure il capo militare dei ribelli a Tripoli, Abdel Hakim Belhaj, ex di Al Qaida, che ha preso sotto la sua protezione dieci terrorizzati africani mai stati mercenari.
I suoi
uomini, però, brandeggiando un coltello, hanno fatto «confessare», davanti all'inviato del New York Times, un paio di prigionieri di 22 anni, del Mali, di essere stati arruolati a forza nelle truppe del Colonnello.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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