La nuova regina del rap è palestinese

In Palestina c’è una florida scena rap. Certo, è il modo più immediato di esprimersi. I rapper dei territori occupati vestono come quelli di Brooklyn - e in un certo senso cantano come loro - animando una scena musicale vivace, che fa ballare ragazzi e ragazze, li distrae dai luoghi ad alto tasso di criminalità e gonfi di droga, come Lod, «la città più malavitosa d’Israele», dicono i Dam, star superimpegnate dell’hip hop che, grazie al passaporto israeliano, suonano in mezzo mondo e il cui singolo Meen Erhabe? (ovvero Chi è il terrorista?) è stato scaricato dal web da oltre un milione di fan.
Ci sono i superarrabbiati come i Palestinian Rappers, ma ci sono anche puri entertainer con idee innovative come gli sperimentatori Ramallah Underground, band che fonde il folk locale con il rap e l’elettronica, o lo spettacolare «beatboxer» Eyad Bc, star di Nazareth che mette insieme un travolgente spettacolo di break dance, graffiti e dj set. Gli arabi sono ultraconservatori, però la vera star della scena è la bellissima anglopalestinese Shadia Mansour, detta la «first lady dell’hip hop arabo» che ha sfondato in America aprendo concerti di Busta Rhymes e apparendo spesso in tv. Un’artista impegnata che canta, recita, cura l’immagine e fa da contraltare alla trasgressiva Sabreena da Witch, ottima cantante r’n’b, attivista politica e fondatrice di un centro di accoglienza per bambini. La Mansour ha aperto la strada a molte giovani rapper come il duo Le Arapyat («Le ragazze arabe che fanno rap», ovvero Safaah Athoth e Nahawa Abed Alaal, che per tirare avanti tra una canzone e l’altra vendevano telefoni cellulari e lavoravano in profumeria) e alle minorenni Dmar. L’ip hop arabo ha entusiasmato il Governo americano, che ha inviato in tour in Medio Oriente un gruppo come Chen Lo & the Liberation Family.

Il rap diplomatico? Intanto giovani rapper crescono da duri ma, con un occhio a 50 Cent, dicono: «Voglio diventare famoso, permettermi abiti di Armani, una Bentley e una casa nuova per mamma». Senza dimenticare un «Insha’Allah», a Dio piacendo.

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