Per la Casa delle libertà sono stati settantasette giorni orribili, quelli trascorsi tra l'11 aprile e il 26 giugno. Da coalizione di governo, con un elettorato equivalente a quello dell'Unione, si è trovata ridotta al ruolo scomodo di una minoranza, schiacciata da un 61,3% di «no» alla sua riforma costituzionale, cioè al suo atto più importante, almeno sul piano simbolico.
Se minoranza, in politica, significa marginalità, non c'è da stupirsi per le domande sul futuro del centro-destra e sulla sua capacità di tenuta. Non c'è da stupirsene se non altro perché il collante di un'alleanza sta nella chiarezza dei suoi intenti, nella forza delle sue scelte e nella decisione su come stare all'opposizione e con quali obiettivi. E questo finora è mancato. Lo si può spiegare in molti modi. In parte con l'infinita campagna elettorale di questo 2006. In parte con la difficoltà a prendere atto delle sconfitte subite. In parte con il non detto sui nodi irrisolti dei rapporti tra Forza Italia, Udc, An e Lega e sulla leadership. In parte con il fatto che il governo dell'Unione non ha ancora compiuto, se si esclude il ritiro dall'Irak, una sola scelta qualificante.
Ma sono solo spiegazioni. Ora la novità introdotta dall'esito del referendum chiede alle componenti politiche e culturali della Casa delle libertà di uscire dal limbo dell'attesa, la condizione di questi due mesi e mezzo, e di cominciare a strutturare un'opposizione. E c'è una sola opposizione su cui poter scommettere: quella alla restaurazione conservatrice che ha cominciato a imprimere il suo segno.
È la riaffermazione dell'identità del centro-destra la strada capace di mantenere un rapporto di fiducia con un elettorato certamente colpito da tre sconfitte consecutive e di preservare fin da subito un'alternativa. Le altre strade appaiono tutte insicure, a cominciare dalla speranza che incidenti di percorso, divergenze interne o critiche degli amici facciano vacillare Prodi. E se anche Prodi dovesse inciampare, nulla dice che sarebbe più vicina un'alternanza visto che l'Unione, più che un'alleanza di governo, appare un blocco di potere, un patto fra poteri.
Le domande a cui il centro-destra deve rispondere sono allora queste: come erodere questo blocco? Come tener aperto il conflitto tra la cultura politica dell'innovazione e la melassa conservatrice? E, soprattutto, come spostare questo conflitto all'interno del centrosinistra? Qui può nascere un'opposizione capace di uscire dalle incertezze di questa fase e dalla tentazione che le singole componenti del centro-destra hanno di poter giocare ciascuna per proprio conto. Si apre - lo ha detto Prodi, la incoraggia Napolitano - la partita della riforma costituzionale e, in subordine, della legge elettorale? I «piccoli nani» riformisti dell'Unione sono più vicini alle visioni prevalenti nella Casa delle libertà o all'immobilismo di tanta parte dei loro alleati? E poi perché non proporre agli «occidentalisti» del centrosinistra una mozione sulle missioni italiane all'estero, che non sia di supporto subalterno al governo, ma di riaffermazione della continuità delle scelte internazionali dell'Italia? Per non parlare poi delle decisioni che stanno per essere prese sul fondamentale capitolo dell'economia: perché aspettare che Padoa-Schioppa sciolga l'enigma al ribasso e non prevenirlo?
Una minoranza sa solo aspettare ed è destinata prima o poi a dividersi.
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