Nuovo Pci, Democratici alla guerra civile

La migliore è di Arturo Parisi il quale disse una decina di giorni fa: «A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino siamo ancora sulla stessa mattonella ad aspettare che qualcuno ci dia l’avanti-marsch!».
È lì che si trova il Pd: su una mattonella da cui tenta sortite disuguali sui centimetri delle mattonelle più vicine, tornando ogni volta alla base come nel gioco dell’oca. Che nel caso del Pd si comporta più che come un’oca, come una di quelle galline cui hanno tagliato la testa e che se ne vanno a zonzo senza meta finché non crollano annaspando.
Prendiamo la giovane Debora Serracchiani che non ha avuto il coraggio di trasformare il proprio consenso in leadership (che sarebbe stato il fatto veramente nuovo, come accade in Francia, o in Spagna). Dice la Serracchiani, a proposito dell’ex sindaco di Roma: «È stata una grossa cazzata candidare Rutelli a Roma. Una delle decisioni più autolesioniste del Pd». E lo stesso Rutelli replica: «Se il Pd accetta di essere “di sinistra”, non è bollito, ma fritto». Non è un mistero che Rutelli sia in uscita dal Pd, forse diretto verso l’Udc, o forse verso la zona franca in cui teoricamente l’Udc incontrerà il Pd. Il fatto è che sta vincendo la linea di D’Alema del ritorno genetico del vecchio Pci, rivisto per le moderne esigenze, con estromissione di eretici e meticci, cattolici e laici, tutti i corpi estranei che non hanno prodotto fecondità ma sconfitte su sconfitte.
Ed ecco allora che si spiega il fuoco di sbarramento contro Ignazio Marino, l’outsider che parla di «una questione morale grande come una montagna» riferendosi al presunto stupratore seriale di Roma, attivista del partito. Marino, avversato da Rosy Bindi che lo accusa di non avere «né il cuore né l’intelligenza per guidare il Pd», è sostenuto ora dagli intellettuali di Micromega che ripiegano su di lui dopo aver perso Grillo, ma si presenta più come un tagliatore di teste che come un presentatore di programmi: dice che bisogna cacciare la cattolica Paola Binetti perché «non crede che i diritti siano di tutti» e incassa così l’accusa di Mario Adinolfi, blogger e anchorman di Red tv che gli dà del gallinaceo: «Marino politicamente parlando è un dilettante, un pollo». E Adinolfi, da outsider modernista e bacchetta i due antagonisti maggiori, Franceschini e Bersani, dicendo che «con Bersani avremmo un partito-chiesa” mentre «Franceschini si traveste da innovatore» ma non lo è. Il che non gli impedisce di sostenerlo, notizia fresca di ieri, nella corsa alla segreteria.
Franceschini naturalmente incassa siluri pesantissimi da D’Alema che lo sfregia con il suo disprezzo: «Franceschini? Beh, in un partito che viene da due sconfitte pesanti nell’ultimo anno e mezzo, normalmente si cambia. Franceschini fa parte di un gruppo dirigente perdente ed è sceso in campo contro personalità incommensurabilmente migliori di quelle che ci sono ora».
E questa era la risposta all’affermazione dell’attuale segretario il quale aveva detto a fine giugno: «Mi candido per non riconsegnare il partito nelle mani di chi c’era prima».
È qui il nocciolo della questione: Franceschini, cattolico ex Dc, non vuole il ritorno egemonico del vecchio Pci, che è invece esattamente quel che chiede D’Alema puntando su Bersani, aperto sostenitore della purezza genetica: «Non possiamo essere un partito idrovora che tira su qualsiasi cosa». E per «qualsiasi cosa» Bersani, come D’Alema, intende proprio tutti coloro che sono estranei, o nemici, dell’invisibile ma persistente solco comunista, si chiamino Grillo o Marino, ma anche Franceschini o Rutelli. Bersani incassa così inevitabilmente un’accusa di ipocrisia dall’ex segretario Veltroni: «Non può far finta di venire da un altro pianeta», intendendo dire che Bersani appartiene all’anima più vecchia della componente comunista.
E poi c’è Piero Fassino, ex segretario del partito, ex ministro degli Esteri, ex eminenza grigia del Pci riformista della scuola torinese, totalmente fatto fuori dall’apparato dalemiano e trattato come un cane in chiesa: ha avuto persino problemi a farsi accogliere alla festa dell’Unità che adesso si chiama ridicolmente «Democrat Party» con vaghi riferimenti a James Bond con la scritta «Mescolato, non agitato».
Ebbene, Fassino, colpevole di essere fedele a Franceschini, e quindi di essersi posto fuori dalla linea della purezza genetica che sta per prevalere nel Pd benché lui stesso venga dalla destra comunista liberal torinese, rifiuta sia l’outsider Marino di cui depreca la scompostezza («le parole di Marino sono inaccettabili. Per raggranellare qualche voto ha offeso migliaia di militanti»), sia Bersani il comunista doc, di cui dice: «È il candidato dei nostalgici, di quando i Ds avevano un altro nome», e cioè comunisti. Qui l’accusa a D’Alema di essere il portatore del vecchio genoma di Botteghe Oscure dichiarando conclusa la fase della sperimentazione ibrida con cattolici e laici, è lampante e infatti Fassino, dopo Bersani, attacca frontalmente il suo sponsor D’Alema: «Si definisce uno statista e ha paura della Serracchiani?» e, in un’altra occasione, «sconcerta il tono delle parole di D’Alema».
Si potrebbe andare avanti a lungo spulciando invettive, insinuazioni, fuochi di sbarramento, fili ad alta tensione e tagliole, ma il punto è che il Pd sta vivendo una scissione di fatto che probabilmente si trasformerà prima o poi in una scissione anche formale: la linea del recupero e della supremazia genetica di chi viene dal Pci su tutti gli altri, sta prevalendo. I cattolici, fra cui Rutelli, si sentono messi al bando non meno di quanto non si sentano messi al bando gli outsider, o gli esponenti della sinistra radicale, o giustizialista. Vince, sembra, la linea di D’Alema che cerca la vittoria attraverso Bersani, quello secondo cui il partito non è un’idrovora che raccolga qualsiasi cosa.
Se questa sarà la conclusione del processo che si concluderà con il congresso d’ottobre, avremo questa straordinaria novità: lo «zoccolo duro» si fa partito e si trincera contro le impurità, il meticciato, gli sperimentalismi. E ci sembra che questa linea marci a rullo compressore schiacciando le diversità, i personalismi, i fanatismi, le speranze. Se c’era stata una sorta di «primavera di Praga» nell’ex Pci che l’aveva portato a confondersi e mescolarsi nella folla del comune sentire di sinistra, quella primavera viene ora spenta dai carri armati del partito-partito, senza più un’anima ideologica, pragmatico, emiliano, se necessario cinico e pronto a trattare con la destra senza soprassalti pudichi e senza altro pregiudizio che quello del tornaconto.

Stiamo dunque assistendo alla fine dell’ulivismo prodiano, alla fine dell’innesto cattolico (eretici sia la Binetti che Franceschini e Rutelli, anche se Rosy Bindi resiste) e a un ritorno alle origini. In parole povere, il Pci è morto, torna il Pci.

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