Doveva essere il primo vertice del cosiddetto G2. Invece, l'attesissimo incontro tra Obama e Hu Jin-tao ha finito con il somigliare più ai vecchi «summit» russo-americani della Guerra fredda, in cui i due leader si impegnavano a continuare il dialogo, ma ciascuno rimaneva fermo sulle proprie posizioni. Al termine dell'incontro, è stata messa in scena una curiosa conferenza stampa, in cui i presidenti di Cina e Stati Uniti hanno parlato per 15 minuti ciascuno, ma i giornalisti non erano autorizzati a fare domande. Due ore dopo, su richiesta della Casa Bianca, è stato emesso anche un comunicato congiunto, in cui si riconosceva l'esistenza di diversi punti di vista, ma si sottolineava la volontà di collaborazione su tre problemi: la crisi economica mondiale, un accordo di principio sul contenimento dei gas serra e la lotta alla proliferazione nucleare. Tuttavia, anche su questi dossier non è stato raggiunto alcun accordo di sostanza.
Per quanto riguarda la crisi, Hu ha insistito sulla necessità di evitare ogni forma di protezionismo (che invece gli Usa hanno cominciato a introdurre soprattutto per i prodotti cinesi) ma non ha fornito alcuna risposta alle richieste americane di rivalutazione del remimbi. Sul clima, si è fatto spreco di belle parole, ma ormai è assodato che nella prossima conferenza di Copenhagen non sarà raggiunto alcun accordo vincolante e comunque Hu ha ribadito che per la Cina ogni limitazione dei gas serra deve essere compatibile con le esigenze dello sviluppo. Per quanto riguarda la proliferazione, i due leader hanno convenuto che l'Iran deve fornire la prova che il suo programma di arricchimento dell'uranio non ha scopi militari, ma Hu si è ben guardato dal pronunciare la parola «sanzioni», che sono invece l'obiettivo di Washington se Teheran continuasse a ignorare le risoluzioni dell'Onu.
Sugli altri dossier, c'è stato essenzialmente un dialogo tra sordi. Obama ha riconosciuto (come aveva già fatto Nixon nel 1972) che il Tibet è parte integrante della Repubblica popolare, ma ha invitato Hu - senza ottenere alcuna risposta - a riprendere il dialogo con il Dalai Lama. Il presidente americano, pur non affrontando direttamente il problema dei diritti umani violati dai cinesi (come avrebbero voluto i suoi sostenitori liberal), li ha definiti «un valore universale», di nuovo senza alcuna replica da parte del presidente cinese. Hu, dal canto suo, ha riconosciuto che dialogare con Obama era più facile che trattare con il suo predecessore, ma - con un occhio alle possibili ripercussioni interne - si è premurato di dare alla sua visita un profilo piuttosto basso, più basso che alle precedenti visite di Clinton e Bush. Si è scoperto, per esempio, che i cinquecento studenti che Obama ha incontrato lunedì a Shanghai, e a cui ha illustrato l'importanza di una Internet senza censure e della libertà di espressione, erano tutti membri selezionatissimi della Lega dei giovani comunisti, indottrinati per quattro giorni su come si dovevano comportare. Comunque, a scanso di equivoci, non solo il suo discorso non è stato trasmesso in diretta dalla tv nazionale, ma non è stato neppure menzionato dal telegiornale della sera.
Numerosi osservatori hanno sostenuto che - a causa della crisi economica e dei vari problemi irrisolti, per cui ha bisogno della collaborazione di Pechino - il presidente americano ha dovuto affrontare questo vertice da una posizione di sostanziale debolezza, che sarebbe stata impensabile nel rapporto tra i due Paesi ancora cinque anni fa. «Con gli Stati Uniti che dipendono dagli acquisti cinesi di buoni del tesoro per coprire il loro deficit», ha scritto il New York Times, «Obama era nella situazione di un cliente un po' troppo spendaccione che cerca rassicurazioni dal proprio banchiere». Una situazione, evidentemente, non facile, che non favoriva un incontro produttivo.
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