La corsa di Barack Obama comincia da una bugia: «Oprah, se deciderò di candidarmi lo farò qui al tuo show». Ha mentito. Ha scelto la folla e non la tv. Ha scelto Lincoln e non la star afroamericana più popolare della terra. Ora è candidato alla Casa Bianca nel 2008. Ufficiale. Vero: «Obama for president», si può scrivere senza rischio di smentita e con il gusto di un pezzetto di storia che potrebbe arrivare. Corre per le primarie democratiche. Contro c'è Hillary Clinton che ieri avrà visto con un po' di invidia il suo rivale parlare e sognare, vivere e sperare. Lei nel New Hampshire ieri è stata contestata, lui ieri in Illinois è stato adorato. Poi sorrisi e strette di mano. «I love you», le ultime parole. Hillary non ama, Obama sì. Parte svantaggiato, con molti meno soldi della ex first lady e con una macchina elettorale più debole. Corre lo stesso, però. Perché oggi è al massimo della popolarità. Un libro che ha venduto milioni di copie, le copertine dei magazine, le apparizioni sui network. Lui lo sa: «Sono così sovraesposto da essere riuscito a far passare Paris Hilton per una reclusa».
L'America l'ha conosciuto tre anni fa, a Boston. C'era la convention democratica che candidava John Forbes Kerry alla presidenza contro George W. Bush: Obama salì sul palco da semplice candidato al seggio del Senato per l'Illinois. Parlò: «I bambini neri non faranno strada finché non cancelleremo lo stereotipo che un ragazzo nero con un libro è uno che posa da bianco». Tre mesi dopo era l'unico senatore afroamericano del Congresso. L'hanno definito il nuovo Kennedy: Obama ringrazia, ma si ispira di più a Lincoln. Allora Springfield è stata la sua città: da lì ha annunciato il passo verso la Casa Bianca. Da lì, perché il presidente Abramo pronunciò il discorso sulla casa divisa. A Springfield finì la schiavitù negli Stati Uniti d'America: il primo afroamericano che può sperare di diventare presidente non è uno che trascura i dettagli. È diverso, Barack. Prende lo stereotipo del democratico liberal e lo accartoccia: parla di fede, ringrazia Dio sempre, non demonizza gli avversari conservatori. Bush gli ha fatto i complimenti quando è stato eletto, poi l'ha invitato alla Casa Bianca: «Mi sono molto divertito». Lo hanno definito il presidente dell'America «viola» perché unisce il blu democratico e il rosso dei repubblicani. Piace. Non a tutti. Ma piace. Il Washington Post gli ha chiesto di non candidarsi, ma solo per evitare di bruciarsi; Time, invece, l'ha chiamato il «prossimo presidente». Non conta se sarà eletto o meno. Conta che il senatore dell'Illinois s'infila dove gli altri non arrivano, negli spazi lasciati vuoti dalle direttrici storiche dei due partiti.
Poi combatte. Qui arriva Kennedy. John e pure Bobby: «È giunto il momento di riportare le nostre truppe a casa. È giunto il momento di ammettere che nessun sacrificio di vite americane, per quanto grande, può risolvere i disaccordi politici che sono alla radice di questa guerra civile altrui». Hillary s'innervosisce sempre di più: lei ha votato a favore della guerra in Irak e ora tenta la marcia indietro. Perché i democratici non glielo perdonano ancora. Obama sì, ma sa giocare sporco. La Clinton ha approfittato delle voci: «Barack da giovane ha studiato in una madrassa musulmana». Lei se l'è goduta anche quando qualcuno ha ironizzato sul secondo nome del senatore: Hussein. Sconveniente per un americano.
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