Obama, il mister prima volta

Lo chiamano il nuovo Kennedy ma lui preferisce ispirarsi a Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù

Obama, il mister prima volta

La storia ha la voce profonda: «Il nostro momento è ora». Barack Obama srotola le maniche e si mette la giacca. Stanco. È la sua notte dopo centoventi giorni. Primo nero candidato presidente. Primo afroamericano sul viale della Casa Bianca. Nero e bianco: sono colori e qualcosa di più. Foto, immagini, flash, video. Sorride e non esulta, perché è già cominciata un'altra corsa. Ieri Hillary, oggi McCain. Quattro novembre 2008, quello sarà il giorno. Yes we can è lo slogan che resta lungo la mezza America che l'ha scelto contro ogni pronostico, contro ogni previsione, contro ogni logica.

Parla ancora: «È il momento di voltare le spalle alla politica del passato. Il viaggio sarà difficile. La strada sarà lunga. Ma se restiamo uniti, ce la possiamo fare». Scende dal palco, bacia Michelle e le figlie. È un film, è la sceneggiatura di una puntata di West Wing. Obama e la sua campagna sono state immaginate da Hollywood e adesso sono vere. La storia del diverso, del giovane, del nuovo. L'hanno chiamato il Kennedy afro. Lui dice grazie, ma si ispira di più a Lincoln.

Flashback, si torna indietro al 10 febbraio 2007. Springfield, cioè la città dove il presidente Abramo pronunciò il discorso che mise fine alla schiavitù dei neri. Obama ha cominciato lì la sua campagna. Coincidenze, simbologie. Antico e moderno, con gli U2 in sottofondo. Un anno e mezzo dopo l'America conosce ogni sua smorfia. Affascina, colpisce, prega, piange, Barack. Umano. Uno che fumava, che ha provato la cocaina, che sbaglia. È un fenomeno mediatico: le primarie l'hanno trasformato in una speranza, poi in un santone che alla fine faceva anche un po' paura. Allora doveva battere la Clinton, adesso deve provare a superare McCain: forse cambierà strategia, forse no.

Attacca ora: «Non è mutamento quando promette di continuare la politica in Irak che chiede tutto ai nostri coraggiosi soldati e niente ai politici iracheni». Forse da oggi non conterà più solo il volto, ma anche il contenuto. Ce l'ha Barack e alla prima uscita da candidato vero dice quello che l'America vuole sentire: «Non scenderò mai a compromessi quando si tratta della sicurezza di Israele. Eliminerò la minaccia Iran». Ce l'ha perché sennò non sarebbe diventato quello che è oggi in quattro anni scarsi.

Due agosto 2004, salì sul palco della convention democratica di Boston da aspirante senatore. S'è preso i palinsesti tv, i talk show, le copertine, l'America, il mondo. A un certo punto sembrava sorpreso anche lui: il tritacarne elettorale l'ha propinato in ogni maniera possibile, tanto da renderlo a volte persino stucchevole. Il bel mondo del cinema e dello show l'ha preso come simbolo, rischiando di farlo diventare indigesto.

La sua forza è la folla. Bianchi e neri, ricchi e poveri, giovani e vecchi: ogni comizio una specie di concerto rock. Un milione di finanziatori gli hanno regalato microdonazioni: alla fine è diventato il candidato più ricco di tutti. Un paradosso, anzi no. Time l'ha chiamato il «prossimo presidente». Quando? Prima o poi. Perché Obama per loro, per molti, per altri, resterà. Allora non importa se vincerà o perderà, vale che il senatore dell'Illinois a 46 anni s'infila dove gli altri non arrivano.

The conciliator, ha scritto il New Yorker: «Pensa progressista e si esprime da conservatore». La fede, per esempio. Osanna al Messia laico. Barack imbarca nella campagna quelli che credono in lui. L'ultimo che si è iscritto alle liste dei «fan» è il neocon Francis Fukuyama. Allora esistono gli Obama republican, esattamente come esistevano i Reagan democrats. Senza pregiudizi e senza barriere ideologiche. Lui è un sognatore pragmatico, cioè un ossimoro nella vita, ma non nella politica. Qui c'è il romanzo dell'America.

Comincia da un immigrato del Kenya che conosce una giovane bianca del Kansas e se ne innamora. Comincia il 4 agosto del 1961. Comincia dal nome: Barack Hussein Obama Junior. Barack è andato e tornato: ha vissuto in Indonesia, s'è laureato a New York, poi ad Harvard. La sua vita è quella di uno che ce la fa, sempre. Nessun nero aveva mai diretto la Harvard Law Review. È arrivato lui e c’è riuscito. Decise di candidarsi al Congresso dell'Illinois rifiutando l'appoggio del sindaco di Chicago Richard Daley: nessuno l'aveva mai fatto. È arrivato lui e ci è riuscito.

Decise di candidarsi per il Senato: mai uno senza esperienza politica nazionale aveva tenuto il discorso chiave in una convention presidenziale. È arrivato lui e ci è riuscito. Nessuno con la pelle nera aveva vinto le primarie. È arrivato lui e c’è riuscito. È storia. E forse non è ancora finita.

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