Dunque, Obama avrà il suo vertice. Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, e il presidente palestinese Abu Mazen partono oggi per New York dove, domani, prima dell’Assemblea Generale dell’Onu di mercoledì, si terrà un incontro con il Presidente degli Stati Uniti. Obama vedrà prima un leader alla volta e poi tutti e due insieme. Una bella fotografia senza molta sostanza. Abu Mazen è stato il più recalcitrante, e ha riempito la settimana scorsa di accuse contro Netanyahu; d’altra parte il premier israeliano, che ha ripetuto che le costruzioni negli insediamenti subiranno solo un blocco parziale, insiste per riprendere i colloqui che furono interrotti da un ennesimo rifiuto palestinese nel 2008.
Abu Mazen accusa Bibi di restare attaccato alla politica degli insediamenti, e dopo l’incontro di sabato con Mubarak al Cairo e con Abdullah ad Aqaba, si è rafforzato nell’idea che la palla debba essere giocata in campo israeliano; la strada l’ha già tracciata Obama, quella di un completo «congelamento» degli insediamenti, fra cui Abu Mazen considera anche Gerusalemme, come precondizione. È una novità assoluta, finora i colloqui si sono affrontati senza ostacoli preventivi. Ma ora Abu Mazen insiste a porre la precondizione di Obama, e il suo inviato George Mitchell nei giorni scorsi due volte a Ramallah e due a Gerusalemme, ha ottenuto qualcosa: Bibi fermerà le costruzioni private per sei mesi, ma non strutture come scuole, asili nido, ospedali, cioè gli edifici pubblici. Una foglia di fico per l’opinione pubblica dei settler che temono di essere estromessi dalle loro case al secondo round. Ma il portavoce e negoziatore Saeb Erakat ha dichiarato che «solo dopo l’Assemblea generale, quando Mitchell tornerà nell’area, forse ci saranno le condizioni per riprendere i colloqui». Che cosa significa la neghittosità palestinese e invece l’attivismo di Israele? Per Netanyahu si tratta di recuperare il rapporto con Obama, difficile dall’inizio. Spera solo che, come hanno promesso gli americani, la pillola possa essere addolcita da qualche progresso sulla linea proclamata da Obama: una pace di area col riconoscimento generale di Israele. Per ora non ci sono segnali che funzioni, ma Israele, minacciata da nord dagli hezbollah finanziati dall’Iran, e a sud da Hamas, anch’esso ben sostenuto da Ahmadinejad, valuta nei rapporti con gli Usa una variabile iraniana che determina il valore della moneta di scambio. Per Israele è molto importante non innervosire gli Usa e allargare la benevolenza araba mentre l’Iran ha già abbastanza uranio arricchito secondo l’Iaea, l’agenzia atomica, per produrre la bomba.
Abu Mazen la vede assai diversamente: la concorrenza di Hamas gli proibisce di apparire prono ai desideri americani e israeliani. Vuole il consenso di chi non vorrà mai una pace con il nemico sionista e miscredente. Lo si è visto anche dal massimalismo a tratti filo-terrorista del congresso di Fatah, e dalla propaganda di questi giorni: molta retorica, molta esaltazione della violenza e neanche l’ombra di un riconoscimento dello Stato ebraico. In secondo luogo, Abu Mazen si fida molto dell’attuale trend politico: Obama non vede nel rifiuto arabo e nel terrorismo, ma piuttosto negli insediamenti il maggiore ostacolo da battere per la pace. Abu Mazen conta, in terzo luogo, sugli europei: Solana a luglio ha dichiarato a Londra che se non ci sarà un compromesso, l’Ue dovrà riconoscere unilateralmente lo stato palestinese nei confini del ’67. I grandi problemi sono stati accantonati. Profughi? Sicurezza? Gerusalemme? Tutte cose che per Solana si possono vedere poi. Voci di ambiente diplomatico, dicono che Obama soppesa e valuta positivamente l’idea. Insomma Abu Mazen può pensare che se temporeggia un po’tutto gli verrà servito su un piatto d’argento, e sia Fatah sia Hamas potranno studiare il loro prossimo passo di conquista.
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