Barack Obama non lo ammetterà mai, ma il suo rapporto con lalleato-nemico Recep Tayyip Erdogan sembra segnato da uninnaturale e insana voglia di sottomissione. Nel 2009 gli dedicò il suo primo viaggio da presidente confidando vanamente in lui per riallacciare i rapporti tra America e mondo musulmano. Solo questanno gli ha telefonato nove volte rischiando dingelosire un alleato come David Cameron con molte meno chiacchiere allattivo. Eppure davanti al protagonista della rinascita turca il presidente della logorata potenza americana continua a presentarsi in ginocchio.
È andata così anche ieri. Nellincontro organizzato per appianare le questioni che turbano i rapporti tra Washington e Ankara alla vigilia dellapertura dellAssemblea Generale dellOnu Obama non ha cavato un ragno dal buco. Ed Erdogan non ha mosso un dito per aiutarlo. Sulla questione palestinese il presidente turco non fa mezzo passo indietro. Fedele alla promessa formulata al Cairo di «sollevare la bandiera palestinese», continua ad appoggiare la richiesta di riconoscimento avanzata dallAnp e a promettere la scorta delle fregate turche alle navi di aiuti che tenteranno dinfrangere il blocco israeliano di Gaza. Del resto, perché accontentare Obama. Proponendosi come nuovo paladino della causa palestinese e della lotta a Israele Erdogan cavalca la causa che gli garantisce il sostegno di tutte le piazze arabe e musulmane. Quello è lingrediente fondamentale della ricetta studiata per restituire al proprio Paese il ruolo di grande sultanato e neutralizzare linfluenza americana in Medio Oriente.
La ricetta bolle in pentola dal 2003. Da quando Ankara negò il permesso di attraversare il proprio confine alle truppe americane dirette in Nord Irak per combattere Saddam Hussein. Oggi è quasi arrivata a cottura. Obama, nonostante il sostegno alle primavere di Libia, Egitto e Tunisia, non è più in grado di muovere una pedina sullo scacchiere mediorientale senza fare i conti con linfluenza di Ankara. Persino limbarazzante silenzio di Washington davanti alle tremila vittime della repressione siriana dipende da Erdogan. Senza unintesa con lui gli Usa non sono in grado di muovere una foglia. Ma perché si muova qualcosa in Siria Obama deve prima rispondere agli interrogativi sornioni dellalleato turco. Un alleato sempre pronto a chiedergli perché Washington, pur teorizzando la logica dei due Stati, appoggi Israele, ma voglia imporre il veto sul riconoscimento della Palestina.
La volpe dIstanbul ha anche altre armi. Prima di arrivare negli Stati Uniti ha rimandato di proposito la ratifica di unintesa per linstallazione sul territorio turco del nuovo sistema di missili anti radar americani. Senza quei radar tutta la nuova strategia statunitense è a rischio e garantire la difesa dIsraele in caso di guerra con lIran è quasi impossibile. Ma per dare il via libero a quei radar Ankara pretende ancora qualcosa in cambio. In fondo lIran sarà anche un concorrente sul piano geopolitico, ma è pur sempre un proficuo e interessante partner commerciale. Laltro gancio fondamentale per tener sulla corda Obama riguarda la stabilità del Mediterraneo. Nei giorni scorsi la Turchia ha minacciato un duro intervento, anche militare, nel caso Cipro avvii lo sfruttamento di un imponente giacimento di gas situato tra le proprie coste e quelle israeliane.
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