nostro inviato a New York
Per contare a Barack Obama servono le due mani. Comincia: Alaska, Lousiana, Nebraska, Washington, Maine, Virginia, Maryland, District of Columbia, Wisconsin, Hawaii. Dieci, gli Stati vinti di seguito. Non perde una battaglia dal 5 febbraio, si trascina un'onda che sembra difficile da fermare. Si arrotola le maniche e alza le braccia. Hillary è dietro: percentuali sempre più distanti: 17 punti nel Wisconsin, 52 alle Hawaii, cioè in casa, anzi a casa, perché lui in quelle isole da paradiso è nato e cresciuto. I distacchi raccontano che da un mese il «momentum» è tutto del senatore nero, mostrano quello che gli analisti poi commentano, ovvero che anche chi all'inizio votava Hillary, ora sceglie Barack: le donne e quelli della bassa middle class. Anche lo storico sindacato degli autotrasportatori, i teamsters, lo appoggia. Così il vantaggio aumenta, le aspettative pure, la pressione anche. Adesso Obama ha più delegati della Clinton. Adesso può solo perdere lui.
È la fase due della campagna: il secondo che diventa primo e deve reggere fino alla fine. Hillary corre meno di lui, ma sa che se Barack sbaglia una curva, lei passa di nuovo in testa. In Texas e Ohio Obama può anche fare uno a uno, forse può persino perdere «bene» in entrambi e restare davanti. I sondaggi dicono che la Clinton è in vantaggio, ma che la distanza è minima. Un mese fa in Texas lei aveva 25 punti di margine, ora sono sette. Oggi si sfideranno nell'ultimo dibattito prima del voto. Forse anche l'ultimo prima della nomination.
Obama si accorge che qualcosa è cambiato e che gli avversari mettono in campo la contraerea. Sono due, adesso. C'è Hillary che continua a ripetere l'attacco più facile: «L'America non si può accontentare delle parole». Dice che ci vogliono programmi, credibilità, esperienza: tutto quello che ha lei e che non avrebbe Barack. Poi c'è John McCain. Il candidato repubblicano è quasi certo di avere la nomination: vede il nemico più probabile, legge i sondaggi e scopre che secondo Zogby adesso il senatore afroamericano lo batterebbe di otto punti. McCain si preoccupa e spara: «Il Paese non deve essere ingannato con esortazioni eloquenti ma vuole al cambiamento». Anche questa è fase due. Ora che l'outsider sta per prendersi quello che nessuno s'aspettava, comincia il riflusso. I giornali si dividono. Barack è il più raccontato, documentato, letto. Sono andati a raccontare la sua storia di vincente e però di umano. L'hanno descritto come un un messia della politica. L'hanno spinto, lanciato, sostenuto. Ora che può vincere prende quello che spetta ai favoriti: frecciate, piccole accuse, dubbi. Hanno cominciato con la storia del discorso plagiato: rimbalzata su tutti i media americani bei giorni scorsi. Ora tocca alle gaffe di Michelle, la moglie, aspirante first lady.
Il New York Times l'ha chiamata «sindrome del ritorno alla realtà». Si chiede se il fascino di Barack può continuare, se alla fine si spezzerà il meccanismo che ha portato il senatore a essere il personaggio più in vista del pianeta. Newsweek era stato il primo settimanale a lanciare la stella di Obama. Era il 2005. Adesso comincia a raccontare le delusioni di Barack: «Parla di cambiamento, ma ancora non ci ha detto come vuole cambiare il Paese». L'Economist s'è stancato dei comizi: «Ci vogliono più contenuti». Barack legge e calcola.
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