Occhio, la Francia ci frega Malaparte

La settimana prossima uscirà – in Francia, dall’editore Grasset – una enorme, importante biografia di Curzio Malaparte. Sono 630 pagine, che ci auguriamo verranno presto pubblicate anche in Italia, fitte di documenti e testimonianze inedite, da Giorgio Napolitano a Maria Sole Agnelli. Anche l’autore, italianissimo, è importante. Maurizio Serra, nostro ambasciatore presso l’Unesco, è uno studioso fra i più autorevoli della cultura europea fra le due guerre, e basti ricordare il saggio Fratelli separati. Drieu, Aragon, Malraux (Edizione Settecolori, vincitore del Premio Acqui storia). La nuova opera, palesemente frutto di anni di lavoro e di studio, è fascinosa fin dal titolo: Malaparte. Vies et lègendes (Malaparte. Vite e leggende), a indicare quante siano state le trasformazioni di un uomo camaleontico, e che ha volutamente aggiunto alle sue molte vite un numero ancora maggiore di leggende.
Lo scrittore sosteneva, e la frase fa da sottotitolo al saggio di Serra, «Perderò a Austerlitz e vincerò a Waterloo». Così è stato: denigrato in vita - per il suo enorme successo, la sua arroganza anticonformista, il suo voltar gabbana, che si riteneva più opportunista di quanto fosse – Malaparte è ormai oggetto di una profonda revisione storico-letteraria, che mi onoro di avere iniziato nel 1981 con la biografia, tuttora vispa e vegeta, L’Arcitaliano (Bompiani). Sono seguiti altri studi revisionisti e, di recente, l’acquisizione da parte della Biblioteca di via Senato, a Milano, dell’intero archivio dello scrittore, che permetterà ulteriori ricerche. Quanto alla diffusione delle opere, sono in corso di ristampa presso Adelphi, un editore impensabile fino a pochi anni fa. Kaputt e La pelle sono tra i libri italiani di tutti i tempi più tradotti nel mondo.
Molte vite, molte fantasie, molte menzogne, ma perché Malaparte - dietro le ombre di Chateaubriand, Byron e d’Annunzio, «che furono sempre i suoi modelli», scrive Serra - considerava la rappresentazione del reale, quindi la sua distorsione, più vera della realtà: «La storia non l’ha mai interessato, se non per piegarla ai suoi fini, torcerla e tenderla come una stoffa», proprio come materialmente faceva suo padre, tecnico tedesco chiamato a lavorare nel fabbricone di Prato: «L’Io è il solo faro nella sua notte».
Rispetto alla mia interpretazione, Serra conferma l’idea che Malaparte abbia avuto una coerenza politica di fondo, con tutti i salti della quaglia (che comunque furono di molti nella sua generazione) tra repubblicanesimo e fascismo di sinistra. L’importante era la rivoluzione, il cambiamento del Paese. Malaparte è modernissimo e ha una coerenza intima come «interprete profetico della decadenza dell’Europa di fronte alla nuove potenze (Urss, Usa, Cina) e alle ideologie di massa: fascismo, comunismo, terzomondismo \. Pochi intellettuali della sua epoca hanno previsto con altrettanta precisione e denunciato con più vigore il declino di questo Occidente. Come immaginarlo altrimenti? Cosa sarebbe Malaparte in un mondo globalizzato» e che ricorre al politicamente corretto per coprire la sua mancanza di valori? «È già ammettere quanto ci manca». A differenza delle mie conclusioni, Serra ritiene Malaparte poco italiano, nel senso corrivo, per «certa mineralità e certo ascetismo guerriero», facendo in ciò onore all’origine tedesca dello scrittore. Giudicheranno i lettori.
Dal suo punto d’osservazione privilegiato, a Parigi, Serra nota che «i numerosi lettori e ammiratori francesi di Malaparte», più amato Oltralpe che da noi, «si rinnovano spontaneamente di generazione in generazione, senza bisogno di grandi sforzi da parte dell’industria culturale, dando prova di un’indulgenza culturale che i francesi accordano a pochi autori stranieri». Del resto, Serra spiega bene che Malaparte fu fascistizzante, ma «prossimo ai rivoluzionari e lontanissimo dai conservatori, dai nostalgici, dai reazionari»: collocato in quel «fascismo rosso», o di sinistra, che perse la sua battaglia dopo la conquista del potere ma che risorgerà negli Anni Trenta con intellettuali che infine troveranno sbocco nel comunismo, come Elio Vittorini. Respinto dai comunisti italiani, che peraltro disprezzava, Malaparte «supererà in audacia i suoi compagni mancati, volgendosi verso Mao, che lo riceverà con tutti gli onori dovuti al suo rango, dieci anni prima di ricevere Malraux»: senza che né l’uno né l’altro intellettuale capissero veramente che cosa stesse accadendo in Cina, ma l’italiano aveva almeno la giustificazione della malattia che di lì a poco lo porterà alla tomba.
Dell’interesse francese per Malaparte saranno ulteriore prova l’immancabile successo del libro di Serra e il convegno che si terrà il 24 febbraio all’Istituto italiano di cultura di Parigi diretto da Rossana Rummo, cui parteciperanno lo stesso Serra, Francesco Perfetti e il sottoscritto, insieme a un gruppo di intellettuali francesi di cui cito solo i più noti da noi: Jean-Paul Enthoven, Dominique Fernandez, Bernard-Henri Lévy, che pubblicherà gli atti sulla sua rivista La Règle du Jeu.
Il saggio di Serra fornisce materiale abbondantissimo per capire le opere letterarie e le caratteristiche umane di Malaparte, dalla parca sessualità al vero dandismo, dal fascino della casa che costruì a Capri al suo gusto per la vita: «Nazionalista e cosmopolita, pacifista e bellicista, élitario e populista, scrittore politico dalla nitida scrittura e romanziere dall’immaginazione barocca, arcitaliano e antitaliano, talvolta un po’ ciarlatano, Malaparte non finisce di sconcertarci per la sua modernità e per le sue continue sfide a ogni convenzione».

Più Arcitaliano o più Antitaliano, dunque? Non importa: se è vero, come è vero, che leggerlo «è un’esperienza che tocca quasi l’incesto», tanto è «ancora in noi, Italiani, Europei venuti due, quasi tre generazioni dopo, per come sa parlare a noi e di noi».
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