da Venezia
A ogni festival tornano vecchi film, migliori dei nuovi, ma questi ultimi non lasciano il tempo di vederli. Ma Tepepa di Giulio Petroni è il gioiello della selezione dei western italiani ideata per la Mostra da Manlio Gomarasca e Marco Giusti, ora autore anche di un loro Dizionario. Petroni girava Tepepa quando alla Mostra vinceva Artisti sotto la tenda del circo: perplessi di Alexander Kluge, che nelle sale incassò ben poco. Ora Kluge è qui con una retrospettiva, il che non stupisce; stupisce ci siano anche i western italiani, grossi successi prima esclusi dalla Mostra.
Signor Petroni, Tepepa arriva qui con quarant'anni di ritardo.
«Ma la rivalutazione è una gioia, perché il film era guardato con sufficienza da critici e intellettuali del cinema».
L'esclusione dai festival colpiva anche il western americano.
«Eppure il genere si allaccia a filoni importanti e ha avuto grandi registi, come Ford e Hawks».
Il western italiano è stato imitazione, caricatura e innovazione di quello americano.
«Il nostro cinema non era a quei livelli, come non lo è in nessun genere. Ma i nostri film erano forse divertenti, soprattutto per chi li faceva».
Cast di Tepepa: Tomas Milian, John Steiner e Orson Welles attori; Franco Solinas sceneggiatore; Ennio Morricone musicista!
«Sono frammenti di storia del cinema. Il film era coproduzione italoamericana. Potevo scegliere fra tre attori americani: scelsi Welles».
Dirigerlo è stato facile?
«Lo è stato per me: Welles non voleva controfigura, nemmeno quando era inquadrato da lontano».
Welles però non aveva fama di bonario.
«Sì, era scorbutico. Entrò in sala di doppiaggio un americano della coproduzione e chiese: Disturbo?. Sì, replicò Welles, allontanandolo».
Ma con lei Welles s'intese.
«Quando è partito, mi ha anche lasciato un biglietto affettuoso».
E con Milian?
«Con lui no: lo chiamava quel cubano. Del resto, all'arrivo di Welles, Milian mi aveva detto: La più bella del reame adesso è lui».
Lei aveva già firmato Da uomo a uomo, che sarà riproposto fra un mese alla Festa di Roma.
«C'erano Lee Van Cleef e John Philip Law, un bravo ragazzo che teneva le provviste nella stanza d'albergo, come temesse una carestia».
Eppure era magro, anche se non come Van Cleef.
«Una volta la faceva di whisky, ma s'era appena disintossicato. Quell'anno a Natale brindò con me a Coca-Cola».
Nella vita Van Cleef era come nei film?
«Cavalcava benissimo, ma temeva l'auto: il suo autista non superava mai i 40 allora. Il laconico duro celava lansioso».
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