L'immagine che mi è più rimasta impressa delle olimpiadi romane del 1960 (non avevo neanche dieci anni) è quella di Livio Berruti che vince i 200 metri e uguaglia il record del mondo. Di certo non sono il solo, perché furono immagini e emozioni indimenticabili. Già nelle semifinali Berruti - ventuno anni, studente di chimica, calzettoni bianchi e occhiali neri - aveva uguagliato quel record; e l'Italia si divise (tanto per cambiare) fra pessimisti e ottimisti, fra chi giurava che il ragazzo non sarebbe riuscito a ripetere l'impresa e chi si aspettava addirittura un nuovo record. Poi lo vedemmo tagliare il filo di lana - su quei tremolanti e goffi televisori in bianco e nero - davanti a una selva di atleti di colore, considerati imbattibili. Fu la vittoria/simbolo di un'Italia appena uscita da una guerra disastrosa, e già risorta.
Immagina dunque, caro lettore, che effetto mi ha fatto incontrare Livio Berruti - per la prima volta, una settimana fa - al Miramonti di Cortina: allegro e festoso, ma claudicante. Non ho osato chiedergli se per un problema temporaneo. Io che sono ottimista dico: temporaneo. Sempre più ottimista spero che l'Italia, e Roma, otterranno anche le olimpiadi del 2020. Temo invece, e molto, che nei prossimi giorni verremo sommersi dalle celebrazioni nostalgiche per quei Giochi di mezzo secolo fa, iniziati il 25 agosto e terminati in una data che soltanto nel nuovo secolo sarebbe diventata tragica, l'11 settembre.
Ebbene, motivi di vanto e di ricordo ci sono, eccome. Quelle del 1960 furono le prime Olimpiadi davvero "moderne", e fecero da vetrina a un'Italia in cui la produzione industriale era cresciuta del 90 per cento in dieci anni, e che si apprestava a vivere quello che confidenzialmente si sarebbe chiamato "boom" (economico). La lira aveva appena ottenuto dal Financial Times l'Oscar per la moneta più forte, gli italiani davano inizio all'abbuffata di automobili, frigoriferi, televisori; e anche il nostro medagliere sportivo fece un bel pieno. Per uno storico, tuttavia, l'ottimismo è un nonsenso, e lo depongo ricordando alcuni guasti che si sono perpetuati - o aggravati - da allora. Per esempio non fu un buon affare (se non per pochissimi), il nuovo aeroporto di Fiumicino, troppo lontano dalla città e costruito su 1500 ettari acquitrinosi della famiglia Torlonia. Il terreno, acquistato nel 1948 per 15 miliardi, costò anche di più per la stabilizzazione del suolo con grandi quantità di cemento e mazzette. A Roma si cantava, sull'aria del Sor Capanna: "Un giorno un pezzo grosso dello Stato / Doveva annà a fa un pranzo sopraffino / E da l'amichi je fu consijato / De sceje tra Frascati e tra Marino... / Lui rispose: 'Amichi belli, / Nun ce vado a li Castelli! / È bono er vino / Però... se magna mejo a Fiumicino!" Sulla cima del Monte Mario, destinata a parco pubblico, il sindaco Urbano Cioccetti - ex cameriere di cappa e spada di Pio XII - autorizzò la costruzione dell'immenso Hotel Hilton.
Alcune costruzioni destinate allo sport sono ancora funzionanti. Paradossalmente, il ricordo urbanistico più atroce, è proprio il Villaggio Olimpico, popolato da 6500 persone. Progettato nel 1958 da grandi architetti - come Adalberto Libera - per ospitare gli atleti, già nel 1963 cadeva a pezzi.
Oggi sembra un antico agglomerato di case popolari, fitto di antenne televisive, piazzato in una zona fra le più eleganti e frequentate della città, anche per la recente costruzione dell'Auditorium. A chiunque passi per il frequentatissimo corso Francia, e relativo ponte, appare come una sciagura inspiegabile.
Ancora nel 2004 il presidente del II Municipio e i proprietari delle case, per tre quarti privati, chiesero invano al comune, di installare un centro sociosanitaro, rifare le facciate, sistemare le fognature, le strade, i marciapiedi, il verde.
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