«L’identità - dicevano gli intellettuali nei caffè parigini all’inizio degli anni ’80 - è un valore debole. Si è se stessi quando non si ha niente di meglio da fare». Potrebbe essere vero: quando si è vivi si «mangia la vita» scordandosi di sé, senza protezionismi, compartimentazioni, paletti ideologici e tutte le altre carabattole che un ego fragile, assediato o depresso invece si trascina dietro. Che il fascismo sia ridotto a recitarsi in poche enclave con sparute ramificazioni sul territorio e nell’immaginario collettivo è forse il segno più perfetto della sua morte storica.
Oltrenero. Nuovi fascisti italiani di Alessandro Cosmelli per le fotografie e Marco Mathieu per i testi (Contrasto, pagg. 160, euro 22) può essere letto sia come il referto necroscopico di questo trapasso, sia come reportage di energie ancora non politiche che però (non si sa mai come vanno le cose in Occidente) potrebbero entrare nel circuito civile tra un decennio o due. Gli autori - un giornalista milanese con diversi libri alle spalle e un fotografo livornese di stanza a New York per l’agenzia Contrasto - si sono posti una domanda di nicchia, ma interessante: chi sono e come vivono i fascisti di oggi? La risposta potrebbe partire da Casa Pound, nel quartiere dell’Esquilino a Roma, in via Napoleone numero 8: è un edificio occupato alla fine del 2003 da un gruppo di giovani dell’estrema destra, dove oggi si fa «cultura fascista» attraverso campagne come quella del «Mutuo Sociale» (per dare a tutti una casa di proprietà) e «Tempo di essere madri» (che vorrebbe la possibilità del part time per le mamme lavoratrici, conservando però lo stipendio pieno), nonché con presentazioni di libri e organizzazione di convegni e concerti.
Ad avvicinare i ragazzi di Casa Pound è stato Cosmelli, che ha scattato la prima foto cinque anni fa, mentre nell’ultimo anno Mathieu ha raccolto dal vivo le loro storie. Le foto - tutte in bianco e nero, molto contrastate, violente - ritraggono i giovani durante le ore di «parata» o di esercizio fisico in campi desolati fuori dalla capitale, adunati in quelle che sembrano fabbriche dismesse o angoli di periferia, oppure ancora durante la «cinghiamattanza», una battaglia a colpi di cintura. I racconti, invece, narrano di professioni piccolo borghesi, di cortei da organizzare, della svolta di Fiuggi «presa male» o della rinuncia al voto «parlamentare»: parole ingenue, sentite, straniate.
L’atmosfera è quella descritta da Giorgia Meloni nell’intervista alla fine del libro: «Sono ragazzi che credono in qualcosa, pronti a sacrificare qualcosa di sé: posso essere d’accordo o meno con loro, ma ci sono valori che vanno riconosciuti. Chi ha questo tipo di pulsioni è portato a fare politica. E lo dico da un punto di vista antropologico. Nel bi-partitismo verso cui tendiamo, storie identitarie come la loro potrebbero avere un futuro».
Già, potrebbero. L’incognita è quella del dialogo.
Ferme restando le garanzie di rispetto della Costituzione, sarà possibile per questi giovani sganciarsi da un’autoreferenzialità ancora troppo invalidante e mettersi «in colloquio» col resto della popolazione? O forse dietro tutto questo c’è soltanto la stessa logica che fa scrivere ai graffitari sui muri «Io esisto», ma senza impegno?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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