George Bush è atteso in Vaticano per la sua seconda visita. E il giornale della Santa Sede sottolinea, con titolo in prima pagina a grande rilievo, che vi sarà un «protocollo inusuale per l'udienza del Papa al presidente Bush». Dopo l'incontro privato, «il Papa e il Presidente compiranno una breve passeggiata nei giardini vaticani fino all'edicola della Madonna della Guardia, dove saranno attesi dal coro della Cappella Sistina». Un incontro tra grandi amici, evidentemente non solo in termini personali. Se si ricorda l'insistenza con cui Giovanni Paolo II si impegnò per dissuadere il presidente americano dall'intervento in Irak, si può comprendere che l'acqua passata sotto i ponti del Tevere e quelli del Potomac è tanta da cambiare la memoria storica. Ma il Papa vuole dire al Presidente americano che egli rappresenta qualcosa nella storia che non si identifica soltanto con il lungo dramma della guerra irachena. Bush rimane una figura in cui si esprime quel senso dell'Occidente che è, per il Papa, il segnale della permanenza della Cristianità nella modernità ed oltre.
Bush incontrerà anche Berlusconi, di cui ha riconosciuto la statura internazionale ed europea. Conosce bene l'impegno che il leader italiano ha messo per impedire la frattura tra Europa e America patrocinata dall'asse franco-tedesco con componente russa, e per far valere la solidarietà atlantica anche in un conflitto che rimaneva fuori zona rispetto ad essa. I nostri morti di Nassirya sono diventati emblematici di questa fedeltà del nostro Paese all'alleato americano, quando esso era impegnato nella lotta contro il terrorismo in Afghanistan e nel Pakistan, contro quello disperso in Europa e infine contro Saddam Hussein.
Gli elettori americani non intendono girare la pagina della guerra irachena come fecero con la guerra vietnamita. Quelli che la considerano un errore, come i due candidati democratici, sanno bene che le sorti degli Stati Uniti e dell'Occidente sono ormai legate al permanere di una democrazia irachena che comprende sunniti, sciiti e curdi. Neanche Barack Obama può trattare l'Iran come Nixon trattò il Vietnam, lasciando il Paese in mano alla dittatura comunista dopo aver già vinto sul campo di battaglia. Bush rimane dunque qualcuno che ha qualcosa da dire e rimane l'uomo che ha risposto con la forza in Afghanistan e in Irak contro il sorgere di una sfida ideale all'Occidente, del pur illegittimo, califfato universale di Osama Bin Laden.
La sfida all'Occidente era ben chiara: voi sapete soltanto consumare, noi sappiamo anche morire. Era una provocazione radicale che riguardava l'essenza della civiltà, sia di quella cristiana dell'Occidente sia di quella islamica. Se la risposta all'11 settembre fosse stata affidata alla linea franco-tedesca che aveva preso forma in Europa, sarebbe apparso chiaro che l'Occidente non era in grado di affrontare i temi della forza e della morte. Al Qaida puntava su un cedimento morale che avvenne nel mondo franco-tedesco ma non in tutta Europa e in America. Il governo Berlusconi di allora può essere lieto di essere stato vicino alla coalizione che rispose con la forza alla violenza, non soltanto su terra afghana ma anche su terra irachena.
La volontà e la forza sono caratteristiche del Dio coranico e il Dio cristiano, che esprime la misericordia e la debolezza, ha dovuto nei secoli essere difeso con la forza. E Bush ha guidato una coalizione simile a quella che l'Europa cattolica contrappose, con gravissime perdite e sofferenze, alla tentata conquista islamica durata mille anni. In Irak e in Afghanistan il terrorismo ha perso la sua sfida radicale, quella della incapacità degli occidentali di usare la forza e di sfidare la morte. Il terrorismo è così caduto come sfida religiosa e morale e si è consumato in Irak e nel mondo arabo come terrorismo contro i sunniti o contro gli sciiti: un terrorismo intermusulmano. Ed ora l'intervento iracheno è un successo, ha potuto persino superare il conflitto tra il governo curdo in Irak e la Turchia. Il governo di Al Maliki sta accettando la permanenza americana oltre il mandato dell'Onu.
Se il sostegno a Israele nei confronti della minaccia iraniana del nucleare militare ha un senso, è perché Bush ha voluto combattere in Irak.
Gianni Baget Bozzo
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