«È un’opera che carica di energia i visitarori»

Che reazioni si aspetta di provocare nei visitatori?
«Vorrei stimolare la percezione. Mi aspetto che si lascino trasportare da quello che percepiscono e che questo li modifichi. Si può entrare arrabbiati, innamorati, stanchi. Quello che vorrei è che una volta aperti al rumore, questo carichi i visitatori di energia».
Lei usa sempre grandi spazi per le sue Fatiche. Qual è il motivo?
«La sperimentazione. Dal rapporto tra lo spazio che ospita l'opera e l'opera stessa si crea un rapporto che fa nascere un terzo luogo: un nuovo spazio percettivo, ingrandito, trasformato o che addirittura fa sparire i precedenti».
Come è nata l'idea di questa installazione?
«Sono arrivato a Milano con alcune idee. Ma quando mi sono chiuso nell'Hangar, lo spazio me le ha distrutte e anche stavolta ho dovuto soffrire.

Ho fatto molte prove quando ho ascoltato risuonare alcune lamiere, dei cerchi, è stato l'Hangar a dirmi che cosa dovevo fare».
Qual è il significato di Fatica 16?
«Non c'è un significato, così come non c'è un racconto. È un'opera che nasce dal rapporto totalmente meccanico del corpo con lo spazio. Non c'è niente di soggettivo».

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