Cronaca locale

Le opere di Oz tra esilio e immigrazione

«In Israele ci sono giovani emergenti con un’elevata preparazione Confido in loro per il futuro»

Il suo ultimo libro «Non dire notte» (Feltrinelli) è la storia di un amore maturo tra un uomo e una donna che si consuma tra alti e bassi a Tel Kedar, una tranquilla cittadina israeliana nel deserto del Negev. Qui vivono vecchi e nuovi immigrati, persone colpite da tragedie immani ma anche personaggi vitali e pieni di speranza. L'autore è Amos Oz, il grande scrittore israeliano di passaggio a Milano prima di andare a Pordenone dove si svolge, fino al 17 marzo, il festival «Dedica» quest'anno in suo onore. Lo abbiamo incontrato per un'intervista.
Nei suoi libri ricorre spesso il tema dell'esilio.
«Viviamo nel mondo dell'esilio. L'esilio, anche quello interiore, non è soltanto una condizione ebraica, è un'esperienza umana oggi molto diffusa. Nel libro scrivo di un microcosmo, una città nuova e artificiale incastonata nel deserto, dove ognuno proviene da luoghi diversi. Gli stessi israeliani non sono nati lì. Sono tutti degli esiliati. Ma è anche una condizione che offre maggiori prospettive».
Perché ha scelto un luogo simile?
«Per me era importante parlare di un luogo di provincia. Anche il provincialismo è una condizione molto diffusa. Non riguarda soltanto le persone che vivono nelle piccole città, ma anche quelle che vivono nelle grandi metropoli, come Milano o New York. Ma non sempre la gente si rende conto di essere provinciale sotto molti aspetti».
Immigrare significa anche sofferenza.
«La sofferenza è un'altra condizione dell'essere umano. Ho scritto molto sull'argomento perché si tratta dell'esperienza più profonda che ogni singolo individuo conosce e sperimenta su se stesso».
Si parla di un mondo sempre più meticcio dove non ci sarà più posto per i nazionalismi. Cosa ne pensa?
«Non sono un profeta. Non so quello che potrà succedere tra cinquecento o più anni. Per uno che viene da Israele come me è difficile fare profezie. Da noi, quello delle profezie, è un business dove c'è troppa concorrenza».
In Italia il fenomeno dell'immigrazione è più recente rispetto a Israele.
«Israele è un Paese di immigrati. Gli israeliani scherzano su questo argomento. C'è una barzelletta che dice: qual è la definizione di "nuovo immigrato"? È una persona che il primo anno si lamenta del governo che non fa mai abbastanza per integrare gli immigrati; il secondo si lamenta che gli autoctoni non sono gentili come dovrebbero e il terzo anno se la prende con gli immigrati appena arrivati perché ricevono troppe attenzioni. Ecco, questo è Israele».
Come vede la situazione in Italia?
«Per voi è solo l'inizio di una nuova esperienza anche se le migrazioni dei popoli fanno parte della storia. Gente che va, gente che viene. In Israele è sempre stato cosi. È un'evoluzione continua. Quando ero bambino in Israele si contava mezzo milione di abitanti, adesso ce ne sono cinque milioni e mezzo».
I giovani israeliani sono impegnati politicamente?
«Nella media direi di no. C'è tuttavia un numero di giovani emergenti, non so in quale percentuale, con un livello di preparazione altissimo.

Confido in loro per il futuro».

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