Per voce di Rina Gagliardi la sinistra-sinistra, quella tosta, ha preso partito. Dalle colonne di «L'Altro», battagliero quotidiano diretto da Piero Sansonetti (ed edito dalla Broadcasting Innovation Group, mica robetta provinciale), Gagliardi ha alzato il pollice per «Va’ pensiero», puntandolo in basso, anche un po' schifata, per «Fratelli d'Italia». Ma tenendo a precisare, in coda alle considerazioni storiche, musicali e ideologiche che suffragano la scelta di campo, che se il «Va’ pensiero» dovesse mai diventare il nostro inno nazionale «non sarebbe una vittoria di Umberto Bossi: sarebbe una vittoria di Giuseppe Verdi, la nostra vera gloria nazionale in fatto di Musica con la emme maiuscola», per favore.
Gioverebbe, ai fini d'una estiva ricreazione, ripercorrere lo scritto gagliardesco che spazia dai vecchi socialisti a Zucchero Fornaciari e a tale Filippa Giordana. Che non dimentica le bande di paese e la «coscienza nazional popolare» dell'umile gente. Che affronta petto in fuori la questione musicale, la partitura, «melodia malinconica come una cantilena» che «ti penetra nell'anima e ti strugge» (ma anche «un po' ti eccita»).
Dottamente Gagliardi pone in evidenza il talento del paroliere Temistocle Solera, che «sapeva usare gli arcaismi “giusti” per dare a un testo un sapore, per così dire, metatemporale, oltre che solenne, epico, magniloquente». E il lettore capirà subito che se si tira in ballo - non fossanche «per così dire» - il sapore metatemporale, il piatto si presenta ricco di spunti che aprono all'ilarità. Ma non è questo il punto. Il punto è la preferenza della sinistra tosta per un canto le cui parole dovrebbero farla fremere d'indignazione, mentre la mandano in solluchero.
Posti a fronte, fra i due inni non c'è partita, sentenzia Gagliardi. Quello di Mameli, «di carattere battagliero e “marciante”», è «denso della più vieta retorica bellicista e maschilista, con quella celebrazione di Roma che sta un po' tra il ridicolo e l'osceno (“Dov'è la vittoria... che schiava di Roma Iddio la creò”) e quell'invito eroico che oggi suona quasi come una comica: “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte”». (Come se, sia detto fra parentesi, l'inno degli inni della sinistra, l'«Internazionale», fosse pacifista, favorevole al dialogo e al confronto: «Largo a noi! All'alta battaglia? Noi corriamo per l'ideal. Suvvia, largo! Noi siamo la canaglia Che lotta pel suo Germinal»). Quello di Verdi, invece, «contiene un concetto fondativo ed entusiasmante: la libertà. Ed esalta la volontà di riscatto di un popolo oppresso, anzi schiavo, nonché la dolcezza degli affetti legati al luogo in cui si è nati e cresciuti».
E qui casca l'asino. Nel Nabucco - chi l'ignora? - il popolo oppresso, anzi schiavo, che rivendica la volontà di riscatto, il popolo che, per colmo dei colmi, si abbandona alla dolcezza degli affetti legati al luogo eccetera eccetera, è quello ebraico. E il pensiero che va sull'ali dorate quello del focolare ebraico, della patria sì bella e perduta, della sua membranza sì cara e fatal. Insomma, il «concetto fondativo ed entusiasmante» che tanto sovra eccita Gagliardi poco ci azzecca con l'appassionato zelo della sinistra tosta (ma anche di quella flaccida, se è per questo) per la causa palestinese, la quale si riassume nella ferma determinazione di ricacciare in mare ogni singolo israeliano.
Vista così, dunque, spiace dirlo ma Gagliardi è andata a farla ampiamente fuori dal vaso.
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