Cultura e Spettacoli

«Ora mi diplomano ma i sinistrorsi ancora mi snobbano» L’attore, famoso per i ruoli grotteschi da latin lover, ha ricevuto l’attestato del centro di cinematografia

RomaSorridente, disponibile, addirittura raggiante. Tanto da confessare: «Non sto nella pelle». Dovevate vederlo il palermitano Lando Buzzanca, giovedì mattina nell’aula magna del Centro sperimentale di cinematografia, mentre riceveva il Diploma Honoris Causa in Recitazione, tutto in maiuscolo. Dritto come un fuso, naso aquilino e capelli folti: 73 anni portati da dio. Neanche la silenziosa contestazione degli studenti contro il governo, pur svuotando la sala, gli ha tolto il buon umore. Commenta in proposito: «Hanno il diritto di protestare, ci mancherebbe. Però poi leggo sul volantino che chiedono garanzie. Dovrebbero sapere che il cinema non dà sicurezze. Altrimenti fai l’impiegato. Se lavori in questo campo devi imparare a rischiare, sempre. La nostra è una vita da precario, a volte di lusso».
Certo lui non può lamentarsi. Lanciato da Divorzio all’italiana nei primi anni Sessanta, diventò il simbolo di un certo virilismo siciliano, anche dai toni grotteschi, presto trasformandosi nell’icona nazionale del latin lover. Titoli come Homo eroticus, Il merlo maschio, Io e lui, L’uccello migratore dicono molto, anche se non tutto, potendo vantare Buzzanca, nel personale medagliere, buona tv, un po’ di radio, tanto teatro e qualche film di qualità. Come il recente I vicerè di Roberto Faenza, dove ha cesellato l’odioso principe Giacomo Uzeda di Francalanza.
C’è mancato poco che vincesse il David di Donatello.
«Storie. Sapevo che alla fine non me l’avrebbero dato, infatti sono mancati dei voti. Il cinema degli intelligentoni mi vede ancora come un estraneo, un caratterista, uno di destra. Ma la critica ha applaudito. Io sono contento. Adesso ricevo l’unico diploma della mia vita, senza aver dato un esame, per di più dal Centro sperimentale, dove si sono formati artisti straordinari. Cosa posso volere di più?».
Lei è anche Commendatore.
«Sì, ma non me ne frega niente. Meglio il diploma. Mi ha regalato una giornata che durerà anni. Non so se sono più felice o commosso. Lo sa che quando arrivai qui dalla Sicilia, a 17 anni, senza un soldo, sicuro di fare la fame, provai a entrare al Centro, subito scoraggiato. “Buzzanca, lasci perdere, non ha la faccia da cinema”, mi disse qualcuno. Così io feci altro».
Lei ama ripetere di avere la coerenza a destra e la coscienza a sinistra.
«Ma è così. Vengo da una famiglia di socialisti, il fratello maggiore di mio padre fu ucciso da un fascista. Ho girato nel 1972 un film di Salce che si chiamava Il sindacalista. La destra però garantisce valori che mi sono cari: ordine, famiglia, merito. Non ho mai sopportato il Sessantotto. Una sbornia collettiva, l’ignoranza al potere. Bisogna studiare, e molto, per fare bene le cose».
Tuttavia neanche lei si diplomò all’Accademia d’arte drammatica Pietro Sharov, dove si insegnava il metodo Stanislavskij.
«Lo so. Per troppo tempo sono stato un... displomato. Ora non più».
Non farà un po’ troppo la vittima quando se la prende con i registi di sinistra che la snobbano. In fondo da giovane ha lavorato con Petri, De Sica, Pietrangeli, Lattuada, ora Faenza.
«Sono nato libero e la libertà dà fastidio. Del resto anche Germi, ed era Germi, fu isolato dalla lobby di sinistra perché socialdemocratico. Mi è sempre piaciuto Fini, lo trovo un politico lungimirante. Stimo Veltroni, anche se oggi il suo carisma mi pare appannato. Berlusconi non sarà un politico puro, ma sa dialogare col popolo, si esprime in modo diretto. Comunque non faccio la vittima. La discriminazione vera l’ho subita a teatro. Ci sono comuni, penso a Siena o Imperia, dove me lo dicevano chiaramente: sei di destra, non c’è posto per te qui».
Perché a un certo punto mollò il cinema?
«Mi offrivano solo robacce. Ne ricordo una, che non si fece, con Edwige Fenech. Dovevamo fare Adamo ed Eva con la foglia di fico davanti. Una vergogna».
Domanda al merlo maschio: le attrici più belle con le quali ha lavorato?
«Gloria Guida: un corpo felino, sexy, elegante. Poi Laura Antonelli; un viso da casalinga su un fisico esplosivo. Ma erano altri anni, quel maschio lì, “il Buzzanco che le donne ama a branco”, non esiste più, è un reperto archeologico. Oggi noi uomini siamo combinati male, sembriamo vecchi leoni rincoglioniti, mentre le donne sono forti, emancipate, colte. Prima eravamo accusati di machismo, oggi di frocismo. Questo non lo scriva».
Scusi, ma in «Mio figlio» lei non era il commissario Vivaldi che scopre di avere un figlio gay?
«Appunto. Ho finito per la Rai il seguito di quella serie: Altre storie per il commissario Vivaldi. E sto andando a Belgrado per girare una miniserie di Stefano Reali sullo scandalo della Banca Romana. Gran storia di fine Ottocento. Faccio il governatore della Banca, Bernardo Tanlongo. Finì in carcere nel gennaio 1893 con l’accusa di avere stampato banconote non autorizzate per milioni di lire. Non ci voleva credere: aveva finanziato sottobanco decine di politici, inclusi Crispi e Giolitti, e pure il re.

Come vede, la storia si ripete, non cambia mai nulla in Italia».

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