Ora è di nuovo in vantaggio grazie al vento della crisi

Doveva solo non esagerare nelle critiche a Bush. C’è riuscito ed è apparso sobrio e bipartisan

Obama il cinico. Conosce i sondaggi: ha rimesso la testa davanti, sa che l’avversario è in difficoltà, allora insiste. Una iena, un avvoltoio, uno squalo: la politica prima di ogni altra cosa, la campagna elettorale a tutti i costi. La crisi economica letta dal quartier generale del candidato democratico è un’opportunità: si capisce dalle ultime percentuali che hanno riportato in vantaggio Obama. L’insistenza sul dibattito significa questo: con McCain in crisi, bisogna approfittare. La strategia obamiana è stata decisa tre notti fa in una riunione fiume con lo staff più ristretto. I consulenti politici del candidato democratico hanno scelto di rischiare: c’era il pericolo che la posizione del senatore fosse considerata troppo «egoista», c’era la possibilità che la stampa criticasse l’insensibilità di Obama di fronte al richiamo all’unità chiesto da McCain in occasione della convocazione di Bush a Washington.
Non è successo: Barack è passato per «freddo», ma non per avvoltoio. «Fa parte del lavoro di un presidente sapersi occupare di più cose allo stesso tempo». Così mentre preparava le risposte al dibattito sulla politica estera è volato alla Casa Bianca, ha cercato e trovato l’accordo con il presidente e con l’avversario sul piano di ripianamento della crisi finanziaria. Ha giocato col vantaggio, Barack. È da mesi che l’America ripete lo stesso ritornello: i venti della crisi aiutano i democratici perché la gente dà all’amministrazione repubblicana la responsabilità del disastro. Doveva solo non esagerare. Non l’ha fatto: «È la più grave crisi dalla Grande depressione. Ovviamente non do al senatore McCain la colpa per questi problemi, piuttosto alla filosofia economica che lui sottoscrive, la stessa degli ultimi otto anni, quella che dice che dobbiamo dare di più e ancora di più a chi ha molto nella speranza che la ricchezza si diffonda a tutti gli altri».
Cercava una strategia, Obama. Per questo nei primi giorni dopo il crollo di Lehman Brothers ha visto praticamente soltanto i suoi consulenti economici Paul Volcker, Bob Rubin e Lawrence Summers. Con loro ha studiato le potenziali risposte al caos: appoggiare il piano Bush e proporre la sua ricetta per il futuro, cioè un piano da 30 miliardi di dollari per aiutare i proprietari colpiti dalla crisi dei mutui e la creazione di una banca d’investimento per le infrastrutture. Tutto condito da una faccia seria e a volte cupa, da uno che sa di essere in un momento critico per il Paese, da uno che però sa stare di fronte alle telecamere anche quando si deve mostrare preoccupato. Non doveva attaccare, doveva solo ripartire a ogni occasione. Così quando McCain ha cercato di riprendere quota parlando della forza delle fondamenta dell’economia americana, Obama si è ripresentato al Paese con uno spot: lui in primo piano per due minuti, per parlare direttamente agli americani con il tono grave da messaggio alla Nazione. Neanche un accenno all’avversario, solo la spiegazione del suo programma economico, mettendo in guardia sul fatto che servirà tempo per ripulire la scena dalle macerie lasciate dal crollo dei grandi della finanza e per trovare soluzioni alternative ai mega-interventi federali, come quello per il salvataggio del colosso assicurativo Aig. Anche sulle scelte degli uomini del futuro Obama ha fatto il misurato, seguendo i consigli delle sue guide economiche. Ha una rosa di nomi, in caso venga eletto, da piazzare nei posti chiave dell’economia Usa. Gli hanno chiesto subito che cosa farebbe con il segretario al Tesoro, Henry Paulson: «Assumere un’altra persona a fare da giocoliere in questa situazione potrebbe non essere facile. La transizione verso la prossima amministrazione deve essere gestita in uno spirito bipartisan e di cooperazione». Qualcosa per dare l’idea al Paese di essere di fronte a una persona responsabile e non partigiana, uno che guarda prima alla serietà delle persone e poi al colore politico.
Vuol apparire sicuro e rassicurante. La domanda ovvia, scontata, banale è se ci riuscirà. La risposta, la prima, pare un sì. Perché tre settimane fa Obama arretrava ovunque e adesso no. Pennsylvania, Virginia, Michigan, Colorado, cioè molti degli Stati dove si giocherà la partita del 4 novembre in questo momento sarebbero suoi.

Ha recuperato terreno persino nei due Stati chiave nei quali sembrava più in difficoltà: Ohio e Florida, i luoghi dove McCain spera di potersi prendere la Casa Bianca. Ecco, il vantaggio del repubblicano qui è diventato irrisorio. Mancano 38 giorni al voto, un’eternità. Però Obama adesso sorride: se le elezioni fossero domani sarebbe lui il prossimo presidente.

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