Una manciata di giorni, non di più. Sono tempi serrati quelli che la Procura di Milano e la Digos hanno in mente per chiudere almeno la prima fase delle indagini sull’agguato di giovedì sera al direttore di Libero Maurizio Belpietro. La scelta dei vertici dell’ufficio di affidare l’inchiesta per tentato omicidio a due veterani delle inchieste antiterrorismo come Grazia Pradella e Ferdinando Pomarici costituisce un segnale già preciso: la magistratura intende non solo capire - nei limiti del possibile - cosa sia esattamente accaduto attorno alle 22,40 in via Monte di Pietà, ma anche capire come l’episodio si collochi in uno scenario complesso come quello della violenza politica a Milano. É uno scenario che in questi mesi è stato costellato di allarmi veri e falsi, di episodi a volte oggettivamente gravi, a volte ingigantiti, a volte trascurati. E dove l’«episodio Belpietro» costituisce, qualunque sia la sua reale natura, una novità drammatica. Perché, per la prima volta da molti anni a questa parte, spunta la canna di una pistola.
I tre colpi di Beretta 9 parabellum che echeggiano sulle scale dell’abitazione di Belpietro, esplosi dal caposcorta del giornalista per mettere in fuga l’uomo appostato sulle scale, rompono un silenzio durato a lungo. É vero che a sparare è stato un uomo dello Stato. Ma quei colpi sono stati esplosi perché anche dall’altra parte c’era un’arma. Un’arma vera, pronta a fare fuoco, e di cui è stato anche premuto il grilletto. Il colpo non è partito. Ma la descrizione che l’agente ha fatto della pistola è precisa. Ed è, dettaglio inquietante, perfettamente simile a quella delle armi in dotazione alle forze di polizia.
É intorno alla presenza di quell’arma che ruotano buona parte dei ragionamenti che si fanno in queste ore in Procura. Se tutto è andato come racconta il primo rapporto consegnato dalla Digos ai pm, non siamo di fronte ad un altro Tartaglia, all’impresa isolata di uno squilibrato: perché è impensabile che uno psicopatico riesca a compiere appostamenti, studiare luoghi ed abitudini, e soprattutto affrontare senza panico il faccia a faccia imprevisto con un poliziotto che apre il fuoco, e dileguarsi nel nulla facendo perdere le proprie tracce. Il protagonista di questa storia è uno che sapeva esattamente cosa stava facendo.
La presenza dell’arma costituisce un salto di qualità rispetto a tutti gli atti di violenza grandi e piccoli che hanno contrassegnato questi mesi. Percorrendo a ritroso le cronache, il più violento è l’attentato del 15 dicembre scorso all’università Bocconi, una bomba nel tunnel di collegamento con via Sarfatti, rivendicata dalla Federazione anarchica informale, oscura sigla antagonista già protagonista di altre imprese. Ma trovare dell’esplosivo per un ordigno rudimentale è relativamente facile. Procurarsi un’arma corta da guerra come una 9 parabellum richiede collegamenti e contatti di tutt’altro genere.
Per questo tra i prossimi passi dell’inchiesta della Procura non ci sarà quello che è stato in altri episodi una delle prime attività: andare a scandagliare l’universo antagonista più radicale, le frange estremiste al cui interno sono state partorite finora le derive più violente.
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