«Ora “suono” i film ma non tradisco il jazz»

Alla fine della guerra la gente ballava nei cortili. Una sera c’era Gorni Kramer, il guru, che chiese se qualcuno conoscesse un po’ di jazz americano. Si alzò un magrettino imberbe, l’unico che strimpellava con la chitarra pezzi di Armstrong ed Ellington (e poi con il suo sense of humor fece di tutto, persino l’epocale spot dell’omino a mollo del Bio Presto): fu quello più o meno il debutto di Franco Cerri, che a 85 anni è ancora l’eminenza grigia del jazz italiano, il maestro che ha lavorato con tutti, da Chet Baker a Bennie Goodman, e domenica suonerà a Verbania, per la prima volta, colonne sonore di maestri come Morricone, Bixio, Rota, per la costruzione di un nuovo grande teatro.
«Ho 85 anni - dice - e il mio grande amore, oltre alla musica, sono i film. Suonerò in trio con Roberto Galleri alla batteria e il 27enne Alberto Gurrisi all’organo Hammond, eseguendo un pout pourri che va da Someday My Prince Will Come, tratta da Biancaneve, a Parlami d’amore Mariù, che nella versione originale cantava Vittorio De Sica, passando per C’era una volta in America di Leone, poi classici del jazz come Body and Soul e di Sinatra quali My Funny Valentine.
Lei ha suonato con tutti i grandi, anche con Sinatra?
«Purtroppo no. Io suonavo nella prima parte dello show e lo vedevo attraverso le quinte che swingava e teneva il tempo, così pensai che nel secondo set avremmo potuto fare qualcosa, ma quando mi avvicinai tre energumeni mi bloccarono».
Non può comunque lamentarsi.
«Ho lavorato con Chet Baker che era di una dolcezza disarmante, per questo la droga l’ha distrutto; poi Gerry Mulligan, Jim Hall che diceva sempre: «in Europa c’è la migliore musica del mondo», Stephane Grappelli, il Modern Jazz Quartet».
Si è esibito anche con mostri sacri come Django Reinhardt e Billie Holiday che furono fischiati.
«In quei night club di lusso spesso il pubblico non era preparato. Provi a pensare che rivoluzione quando arrivarono Bill Evans, Bud Powell e Charlie Christian che con il bebop cambiarono completamente le regole armoniche. Poi vennero Charlie Parker e Dizzy Gillespie, il bebop sembrava musica selvaggia, ma oggi è una forma d’arte classica».
Torniamo in Italia: lei che faceva?
«Cominciai a lavorare a 14 anni, il 10 giugno 1940, proprio il giorno in cui Mussolini dichiarava la guerra. Ero a Montecatini a fare l’ascensorista, ma appena potei tornai a Milano a fare il muratore».
E alla musica come s’arriva?
«Mio padre mi regalò una chitarra da 78 lire ma non era molto convinto; “non ci sono i soldi per il maestro, ti stancherai presto”, sosteneva. E io ero proprio digiuno di tutto, ma mi piaceva comporre; così presi gli spartiti e cominciai a copiarli senza sapere esattamente ciò che facevo, e il sistema funzionò».
A chi deve di più?
«Gorni Kramer, un vero maestro di vita. Quando eravamo sul palco faceva apposta a cambiare la sequenza degli accordi e delle armonie per mettermi alla prova, mi faceva sudare sette camicie ma con quel sistema di improvvisazione ho imparato molto».
Quando s’è sentito per la prima volta professionista?
«Lo sono sempre stato, ma non mi son mai sentito tale perché mi manca la parte didattica. Mi ritengo troppo piccolo».
Detto da lei... allora gli altri cosa dovrebbero dire?
«Mi ritengo un uomo fortunato, davvero. A 19 anni ero sul palco con Kramer, il Quartetto Cetra e mi domandavo: “ma che ci faccio qui io?”. Poi registrai La classe degli asini con Natalino Otto. Cosa volere di più?».
Oggi segue la musica?
«Il jazz che è la musica classica moderna, sia quello afroamericano che quello europeo. Ora finalmente mi dedicherò all’ascolto della classica: Mozart, Beethoven, Bach. Il rock non ha contenuti interessanti musicalmente. L’importante è il testo, per questo ho amato cantautori come Bindi, Tenco, Paoli».
Cosa manca alla musica italiana?
«L’educazione musicale. Dal ’47 a oggi sono andato al ministero della Pubblica Istruzione sette volte. La prima con Kramer e l’ultima con Enrico Intra.

Ogni volta abbiamo pensato: “è fatta” ma da allora non è cambiato niente. La cosa triste è che vai al ministero e incontri dei politici burocrati che non sanno neppure di cosa stai parlando. Per questo non cambierà mai niente».

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