Michele Anselmi
da Roma
L'effetto simpatia irrompe alla Festa con Viggo Mortensen, l'antidivo americano che deve la sua celebrità al Signore degli Anelli, dove era Aragorn. Completo scuro con maglietta a righe rosse e blu, Mortensen è un ex symbol che non se la tira proprio. L'hanno ribattezzato «Viggo, no ego», per dirne l'affabilità senza capricci, la disponibilità a esperienze curiose, come - caso rarissimo per una star hollywoodiana - girare un film in spagnolo. Già perché in Alatriste, il kolossal di Augustín Díaz Yanes, Mortensen recita nella lingua di Cervantes, in presa diretta, al pari del nostro Enrico Lo Verso, chiamato a indossare i panni dello spadaccino antagonista. Filmone di cappa e spada, come non se ne fanno più: e non sorprende che in Spagna abbia incassato 16 milioni di euro in poche settimane, essendo tratto dalla saga che il best-sellerista Arturo Pérez-Reverte ha dedicato al prode capitano seicentesco Diego Alatriste (la storia si srotola tra il 1622 e il 1643, sotto il regno di Filippo IV).
Applausi stitici all'anteprima stampa. Specie le donne non hanno apprezzato. Eppure Alatriste sfodera un suo fascino vagamente fuori tempo, in un rincorrersi molto romanzesco di amori perduti, figli acquisiti, duelli all'ultima lama, carneficine nelle Fiandre e complotti dell'Inquisizione. Per chi vuole cogliere, c'è però anche altro: omaggi pittorici a Velázquez, citazioni poetiche da Francisco Quevedo, echi teatrali da Lope de Vega. Sintetizzando, un Mestiere delle armi popolare e colto insieme, forse troppo lungo, ma di notevole impatto visivo (per l'Italia l'ha comprato Medusa).
Naturalmente Mortensen, ormai specializzatosi in ruoli atletico-eroici dopo la trilogia dell'Anello e Hidalgo. Oceano di fuoco, non fatica a calarsi nel ruolo di questo soldato di ventura dai baffoni un po' western e dal corpo ricoperto di cicatrici. Malinconico e ribaldo insieme, Alatriste emerge dalle acque ghiacciate delle Fiandre nella prima inquadratura, come un marine ante-litteram. E pensare che nella vita reale è un pacifista doc: in prima linea nel contestare Bush per l'intervento in Irak, ha disegnato di persona t-shirt antimilitariste, dove campeggiano scritte del tipo: «Sostieni le nostre truppe
Riportandole a casa». Poeta, pittore, fotografo, fondatore della casa editrice Perceval Press, nonché pianista e gran amante dei cavalli (un suo libro si chiama Horse is Good), Mortensen deve nome e cognome al padre danese, pur essendo nato a New York e vissuto a lungo a Buenos Aires, un po' come il nostro Tony Vilar. Nel presentarsi ai giornalisti, scandisce in buon italiano: «Sono orgoglioso di aver fatto questo film. È un classico che sarà ricordato per molto tempo». Magari esagera. Perché Alatriste mostra qualche segno di cedimento sul versante dell'intreccio e il finale alla Butch Cassidy sa di già visto. Ma mette di buon umore la passione con cui il quarantenne, e sempre molto figo, Mortensen parla del suo film. Nel quale si ritrova a crescere il figlio di un compagno d'armi morto in battaglia. «È un mestiere difficile. Sapete, mio figlio Henry (avuto dalla cantante punk Exene Cervenka, ndr) va all'università. Con l'esperienza posso dire questo: conta molto come ci si comporta, anche se siamo stanchi e stressati noi genitori dobbiamo saper ascoltare, comunicare. Poi, vero, non sai mai come andrà a finire».
Gran tifoso dell'Atletico San Lorenzo di Buenos Aires, spiega di essere cresciuto con il suono dell'italiano nelle orecchie. «Una lingua meravigliosa», dice, e per fortuna non parla di spaghetti e mozzarelle. Dieci anni fa, quando non era nessuno, girò a Cinecittà Daylight, con Sylvester Stallone. «Mi è bastato un veloce ripasso con l'autista, venendo qui, per ricordare tutto», sorride.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.