La morte nel sorriso inebetito, nel passo goffo, nell’innocenza prevaricata di due disgraziate ragazze down. Da ieri, a Bagdad, il terrore ha anche questo volto. Da ieri l’abisso dell’orrore iracheno è più profondo. Da ieri i militanti di Al Qaida hanno scoperchiato un nuovo girone dell’inferno, l’han riempito con il sangue di almeno 91 cadaveri straziati. Tante sono le vittime del duplice attentato messo a segno facendo squillare i cellulari cuciti nelle vesti delle due inconsapevoli bombe umane. Alle donne kamikaze avevano già pensato. Da mesi quei fantasmi neri tutti saio e tritolo sono lo strumento di morte preferito, quello più facile da far sgusciare sotto gli occhi imbarazzati di poliziotti e soldati. Da mesi gli strateghi di Al Qaida han conferito al gentil sesso la lugubre prerogativa del terrore suicida. A nessuno, però, era ancora saltato in mente di prender una coppia di ragazze con la sindrome di down, vestirle di tritolo e mandarle a seminar morte tra la folla di due mercati. I capi di Al Qaida incalzati dall’offensiva statunitense, abbandonati dalla propria gente, braccati dagli stessi ex commilitoni, han concepito anche questo.
Lo scenario di tanta grottesca atrocità è una capitale dove le autobomba non sono più bagatella quotidiana, dove i quartieri sono presidiati da plotoni di milizie sunnite, esercito e soldati statunitensi. Su quella nuova Bagdad ieri, dopo giorni di acqua e freddo, splende persino il sole. Un sole di febbraio capace d’intiepidire l’aria tersa del mattino, di trasformare la festa del venerdì in una giornata d’acquisti e preghiera. Così almeno spera la folla assiepata tra le gabbie di piccioni e volatili in vendita al mercato centrale di al Ghazil. In quel groviglio di vicoli, in quella calca di pennuti e umani viene sospinta, trascinata, secondo la ricostruzione del portavoce dell’esercito iracheno Generale Qassim al-Moussawi, la prima bomba umana. Di lei è rimasta solo la testa staccata di netto dell’esplosione, recuperata tra quel tappeto di cadaveri, resti umani, piume screziate di sangue. Forse proprio da quel volto intatto deriva la sinistra ricostruzione di una fanciulla condotta per mano nella calca più fitta, abbandonata là in mezzo, fatta esplodere un minuto dopo. Succede così al mercato di Al Ghazil dove i soccorritori raccolgono 45 morti e un centinaio di feriti.
Succede di nuovo, dieci minuti dopo, in un altro mercato di piccioni e volatili alla periferia sud della capitale. La scena è la stessa, cambia solo il bilancio che è di 27 cadaveri e una sessantina di feriti. Il vero orrore alberga però nella crudeltà di chi ha saputo scegliere quelle due vittime sacrificali, nel calcolo cinico o nel fanatismo delle famiglie pronte a metterle a disposizione, nella bieca indifferenza di chi accompagna e abbandona due esseri incapaci di scegliere il tempo e il luogo in cui pigiare il detonatore. Le prove generali di questo tuffo nell’abiezione sono in corso dall’inizio del 2007 da quando è scattata l’offensiva americana contro il cancro alqaidista. Da allora l’utilizzo di donne kamikaze capaci di sgusciare tra le maglie dei posti blocco nascondendo sotto le vesti gli ordigni e sottraendosi alle perquisizioni maschili è diventata una necessità.
Dai primi del 2007 si sono contate almeno sei donne kamikaze arrivate a bersaglio contro gli appena due casi registrati nei quasi cinque anni di conflitto. Nell’aprile 2003 nel pieno della guerra due donne, una delle quali incinta, si erano fatte saltare a un posto di blocco americano uccidendo tre soldati.
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