I cuscini erano una via di fuga, una riserva bibliografica. «I letti li avevano rivoltati da cima a fondo, ma i cuscini, chissà perché, non li avevano toccati...», ricorda Nadezda. Siamo nel 1935, a Voronez, l'anno prima Osip Mandel'stam era stato arrestato dalla polizia politica. Tra le poesie sequestrate, la più scottante - l'unica che riuscissero a capire, in fondo - era l'epigramma antisovietico - questa la didascalia partorita dall'inquirente - Viviamo senza sentire sotto di noi il Paese, dove Stalin è «il montanaro del Cremlino» dalle «dita grasse come vermi», che «forgia un decreto dopo l'altro come ferri di cavallo» e per cui «ogni condanna a morte è una cuccagna».
La poesia non piaceva al suo autore, di solito refrattario a testimoniare gli afrori della Storia. A dire di Boris Pasternak quella non era una poesia, ma un «atto suicida». Nel 1934 Osip Mandel'stam, il poeta fragile su cui si riversò tutto l'odio del regime comunista, fu arrestato e spedito a Cerdyn. Ma il poeta stava male, trafitto dalla miocardite, e tentò il suicidio. Allora si decretò la residenza coatta a Voronez. Proprio lì, a Voronez, «Osip e io ricostruimmo a memoria i versi degli anni '30-'34». Nadezda aveva conservato i manoscritti delle poesie di Osip nella federa dei cuscini, a Mosca. La poesia, sotto Stalin, funzionava così: il poeta detta i versi, sbalzati nella memoria, incisi sull'asse del dolore. La moglie registra, domanda, aggiusta. Poi il manoscritto viene incassato nei cuscini. Così la poesia russa del Novecento è arrivata fino a noi, oggi, indenne alle tagliole staliniste. La poesia si è salvata. Il poeta no. Sempre latitante, sempre sull'orlo della fame e a un metro dal sopravvivere, accettando tutto non come una colpa, ma come una grazia (era «profondamente convinto che il benessere non fosse uno stimolo al lavoro»), spiantato, senza neppure il permesso di risiedere a Mosca o a Leningrado, Mandel'stam, il più grande poeta del suo tempo, figlio di ebrei, fu arrestato nel 1938 con la consueta accusa, «attività controrivoluzionarie». Non si sa come, dove, perché, «della sua fine non si sa nulla di preciso» (Angelo Maria Ripellino): sappiamo che Mandel'stam morì, nel dicembre di quello stesso anno, alla periferia di Vladivostok, in un lager di passaggio, quasi alla fine del mondo, dove anche gli angeli gelano.
Mandel'stam non è un poeta. Mandel'stam è un simbolo. Mandel'stam è l'agnello sacrificale della Rivoluzione russa. Alfiere, insieme ad Anna Achmatova, dell'«acmeismo», cioè di una poesia esatta, densa, concreta e di classica nitidezza - «Mandel'stam ci appare come un poeta greco o latino che scriva in russo... con particolari esatti ferma nei versi l'atmosfera d'un secolo o d'un paese», ci spiega Ripellino - gli fu impedito di pubblicare dal 1923. Da allora gli voltarono le spalle tutti, «possibile che io somigli a un monello che rigira nella mano lo specchietto gettando gibigiane sui più sconvenienti bersagli?», scrive nei taccuini del Viaggio in Armenia, libro di diafana bellezza (in Italia lo edita Adelphi), che lo inguaiò ancora di più: pubblico nel 1933, i detrattori vi scovarono botole antisovietiche.
Mandel'stam resta un magnetico mistero: perché il regime esercitò così tanta violenza su questo uomo dallo «sguardo teso, come cieco alle cose di poco conto», che «cammina in modo ridicolo», «ha reputazione di matto» e «ha pessimi rapporti con i più semplici accessori della nostra civiltà» (così la testimonianza di Lidija Ginzburg), su questo poeta disinteressato al clangore della cronaca, «devoto sempre a un ideale di armoniosa bellezza, senza piegarsi ai temi della contingenza politica»? Iosif Brodskij, che ha subito il pugno del regime comunista prima di scegliere l'esilio statunitense, una risposta se l'è data. «Era l'immensa intensità del suo lirismo a isolare Mandel'stam da tutti i contemporanei e a fare di lui un orfano della sua epoca». Il regime deve uccidere il poeta perché il poeta gli è linguisticamente - e dunque moralmente - superiore. Il regime comunista ha ucciso Mandel'stam perché non capiva i suoi versi che, appena letti, brulicavano nella gola e negli occhi, dilagavano negli intestini, come un virus, instillando l'idea che il destino dell'uomo non è programmabile in piani quinquennali, che l'uomo sogna, pensa, non ha paura.
Basta leggere le undici ottave pubblicate da Adelphi come Quasi leggera morte (pagg. 104, euro 10) con la cura meticolosissima di Serena Vitale per capire tutto. Di fronte a versi come «Forse il sussurro nacque prima delle labbra,/ e senza alberi mulinavano le foglie» o «siamo forse una Haghia Sophia/ con occhi innumerevoli», non possiamo che inchinarci, rileggere, meditare. Al di là del comprendere (d'altronde, dice Osip, «se un'opera in versi si rivela riassumibile, lì la poesia non ha mai messo piede»), questi versi, come biglie di vetro istoriate di oracoli, scritti da un poeta che amava Dante e il «connaturato dadaismo» della «fonetica italiana» e adorava Darwin («bandì una volta per tutte... ogni ampollosità e retorica, ogni pathos teleologico»), ci spingono verso l'enigma, cambiano il nostro modo di guardare le cose. I totalitarismi opprimono ciò che non è immediatamente comprensibile, perché l'ambiguità è foriera di fughe.
«Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia, è solo il lavoro creativo che il poeta sente, e che non si può confondere con nient'altro», scrive Varlam Salamov, in vetta a una verità, nel più bello dei Racconti della Kolyma, Cherry-Brandy, dedicato a Mandel'stam, il poeta dalle «bianche dita esangui», che muore come un cane, come l'ultimo e l'indifeso, nei gulag. Ora che viviamo nel totalitarismo dell'ignoranza, i poeti non abitano i lager, ma sono annientati da una strategica indifferenza. Devono tornare a nascondere i versi dentro il cuscino, voltando le spalle al tempo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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