«P», il Bush latino che piace all’America

Fa politica dal 2000 Ha contribuito all’elezione del papà a governatore della Florida e dello zio alla Casa Bianca

Ronald Reagan si avvicinò al vice George H. Bush. Chi è George III? «Eccolo. È quello lì, il brunetto. Noi lo chiamiamo P». George Prescott Bush aveva 12 anni nel 1988, a New Orleans. Fu la prima apparizione pubblica e politica, tre ore prima che il nonno fosse chiamato sul palco da Ronnie e presentato come il futuro presidente degli Stati Uniti.
«P» è rimasto da allora e ancora. «P» da Prescott, cioè il nome del capostipite della dynasty texana. «P» per distinguersi da George H e da George W. «P», cioè il figlio di Jeb Bush, ex governatore della Florida. È il nuovo volto della famiglia. Nuovo davvero: è un ispanico, un sangue misto. Anglo-messicano, perché la madre Columba è un’immigrata che arrivò negli Stati Uniti per studiare e si ritrovò sposata a uno del clan politico più forte degli ultimi vent’anni. George Junior junior è qua, ora. È in Texas, dove affondano le radici della famiglia e dove deve cominciare la storia di un Bush vero. Trentuno anni, una laurea in legge, una parentesi da procuratore legale, un passaggio da manager di una holding, «P» studia da grande. Nel 2000 è stato il giovane più fotografato d’America. Ha fatto la campagna per lo zio: «Signora, guardi il mio volto. Sono un Bush, mio zio è la persona giusta». Ha stretto mani, ha parlato per strada, ha girato l’America. Poi sul palco della convention che ha nominato George W la prima volta. Non aveva ancora 24 anni, «P». E nel 2004 ne aveva neanche 28, quando ha fatto il replay. Altre mani, altri applausi. In mezzo l’altra campagna elettorale, quella del padre governatore della Florida. «P» è stato anche lì. Leader dei giovani ispanici repubblicani. Gli piace fare il latino: tre anni fa, Time l’ha inserito nei 25 ispanici più influenti del mondo. «I’m proud». Fiero di essere stato anche compagno di classe di Enrique Iglesias, in Florida.
L’ASPETTO DA ROCK-STAR
Goergeus George, l’ha definito Russel Contreras. Figo, quindi. Perché poi piace pure alle donne, e qua straccia bisnonno, nonno, padre e zio che di fascino ne hanno avuto sempre poco e quel poco l’hanno anche usato male. «P» ci sa fare, invece. Qualche mese fa s’è presentato a Dallas alla riunione del Park Cities Republican’s club: c’erano quattrocento signore con coccarda bianco-rosso-azzurra e elefantino stilizzato. L’ha presentato Lisa Luby Ryan: «Ecco “P”. È una rock star». Via gli applausi, i fischi, i baci volanti e una malcelata invidia della platea verso Mandi Williams, texana biondissima ed ex cheerleader dei Dallas Cowboys che l’ha sposato qualche tempo fa. Georgino ha fatto un saltello sul piccolo palco, ha preso il microfono, ha sorriso: «Dovete avere fede in Dio, fede nella famiglia, fede nella comunità». Il vocabolario del repubblicano perfetto, con in più un’idea nuova sull’immigrazione. Parla di nuovo di America di tutti, non vuole muri e barriere. Non può perché ogni giorno si sveglia e si scopre «brunetto», per dirla come il nonno. Non può perché sa che tra i latinos andranno cercati i voti del futuro. E lui è già un politico senza avere incarichi. Due settimane fa una sua email a un gruppo di amici è stata citata da Mike Allen su The Politico: «In un gruppo di candidati che non rispecchiano la base repubblicana, spero vivamente che vogliate scegliere Fred Thompson. È il nostro uomo».
L’OMBRA PRIMA DELLA LUCE
«P» lavora nell’ombra, per ora. Lavora lontano, perché dice che a Washington non potrebbe andare per stare dietro le quinte. C’è il cognome, lo sa. «Mio padre sarebbe il presidente perfetto, così come è stato un grande governatore. Però si dovrebbe chiamare Jeb Koslowski e non Jeb Bush». È anche per questo che negli ultimi due anni, Georgino s’è tenuto alla larga. S’è divertito a lavorare, s’è messo in proprio, dopo aver fatto esperienza nell’ufficio di Robert Strauss, un signore che era il presidente del partito democratico quando il nonno di «P» era presidente di quello repubblicano. Il piccolo Bush ha studiato col nemico e s’è divertito: «Ma mio nonno e Robert alla fine erano amici. Prendevano sempre il caffè insieme». A Forth Worth, ora, l’ultimo George è diventato riservista della Marina. Parla di patria, cita la morte dell’ex giocatore di football Pat Tillman in Afghanistan, come «la sveglia»: «È stato il momento in cui ho deciso». È il passaggio, questo. «P» si prepara per l’America. Il nomignolo gliel’hanno dato: fuori dalla famiglia lo chiamano «47».

È il vezzo di dare il numero ai presidenti: Bush senior è stato il numero 41, Bush Junior è stato il numero 43, a Bush Junior junior hanno prenotato il 2028. Avrà 52 anni. I latinos saranno aumentati di qualche milione. Allo specchio, ogni mattina, «P» avrà la stessa sensazione: il cervello di un politico, nel corpo di un attore di telenovelas. Perfetto.

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