Roma - Ha il volto più disteso, Silvio Berlusconi, quando lascia il piano presidenziale di Montecitorio. Cappotto blu sulle spalle e cartellina in mano, non apre bocca con i cronisti che lo puntano, ma abbandona il palazzo, seguito a vista da Gianni Letta, con una convinzione: «È andata bene». E dopo mille retroscena sul loro rapporto altalenante, il Cavaliere non nasconde con i suoi la soddisfazione per la «piena sintonia», forse davvero ritrovata, con Gianfranco Fini.
Trenta minuti di colloquio o poco più, dopo il Consiglio dei ministri e prima della partenza per Sofia. Un incontro calendarizzato la sera prima - durante la telefonata partita da Palazzo Grazioli, a cui assiste e partecipa pure Umberto Bossi, che dà il la alla «quadra» sulle candidature per le Regionali - per mettere a punto un «approccio generale» sulla situazione politica attuale, alla luce della futura attività parlamentare. Con un occhio di riguardo alla riforma della giustizia, vista anche la presenza di Niccolò Ghedini e Giulia Bongiorno, loro legali personali, oltreché presidenti della Consulta Pdl, il primo, e della Commissione in materia alla Camera, la seconda.
E allora, tanto per cominciare, si mette fine alla querelle sull’ipotesi di sottomissione dei pubblici ministeri al potere esecutivo. «Scenario mai esistito, è stata solo un’incomprensione», si chiarisce, visto che la questione non ha mai fatto parte del programma del partito, né del governo. Si chiude così la parentesi, vis-à-vis, come avverrà sempre più di frequente - salta l’appuntamento della prossima settimana, per la missione in Russia del presidente del Consiglio - in modo da puntare l’attenzione sui temi concreti da delegare magari al partito. E grazie alla presenza dei due deputati-avvocati, esperti in questioni giudiziarie, a cui si dà esplicito «mandato tecnico per trovare soluzioni concordate», si inizia ad affrontare, in maniera marginale, il succo della riforma in cantiere. Tra i punti allo studio, oltre ovviamente alla separazione della carriere dei magistrati, la possibilità di instituire - è una delle idee che circolano - una sorta di super-procura nazionale di nomina governativa, che dia l’indirizzo generale sulla base di un documento d’iniziativa parlamentare.
Ma siamo solo alle prime battute, si vedrà, anche se qualcuno invita a ritirare fuori la lettera in sei punti, inviata lo scorso 19 gennaio al Corriere della Sera, in cui Fini chiedeva pure la modifica dei criteri di nomina per i componenti del Consiglio superiore di magistratura. Lo stesso Fini che ribadisce l’invito a cercare «un’ampia condivisione» in Parlamento, perché - è il suo ragionamento - non bisogna dare minimamente la sensazione di voler agire sull’onda del «dopo Lodo Alfano».
Ma ciò che contava, ieri, era trovare l’intesa politica, tra i due, per avviare il processo complessivo delle riforme costituzionali. Che passa pure per altri punti chiave, come quello del «presidenzialismo convinto», puntualizza un deputato d’area di lungo corso, attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, con un contrappeso federalista (vedi Senato delle regioni) che accontenti pure le istanze leghiste del Senatùr.
Insomma, «è scoppiata la pace», commenta a fine giornata un deputato di fede azzurra, con un entusiasmo che trova però più di una conferma sulla sponda aennina. «Il cui timone», si fa notare, «è stato ripreso in mano dal leader storico». Già.
E per ricomporre fratture vere o solo abbozzate, il Cavaliere è tenuto adesso a discutere di persona con Fini, senza più delegati o mediatori. Uno «schema a due», analizzano alcuni parlamentari, un tempo di casa a via della Scrofa, a cui la terza carica dello Stato non intende più rinunciare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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