Politica

La Padania? L’ha inventata la Fondazione Agnelli

Nella corposa bibliografia che la Lega sta probabilmente inviando al presidente Fini, illustre padano-scettico, c’è un testo vecchio di 18 anni, che ultimamente è tornato sulle scrivanie degli uomini che contano nel Carroccio (Maroni l’ha citato due giorni fa, e l’altroieri sulla Padania campeggiava la copertina che riproduciamo in pagina). Perché della Padania, intesa come entità storico-geografica dotata di un suo preciso Dna, non c’è traccia solo nei comizi del primo Bossi, negli studi di Gianfranco Miglio o negli slogan di Pontida.
Se si torna indietro, agli anni originari della concretissima mitologia leghista, precisamente al ’92, si ritrova un volume redatto da un pool di studiosi super partes e pubblicato da un istituto autorevole come la Fondazione Giovanni Agnelli di Torino, con un titolo che potrebbe sembrare scandaloso per i tutori dell’Unità italiana: «La Padania, una regione italiana in Europa». La Padania? Una regione italiana? Ecco, in quel numero dei Quaderni della Fondazione intitolata al creatore della Fiat, non solo si dà per scontata l’esistenza della Padania, una vasta area riconducibile alla valle del Po, ma si propongono ipotesi di riforma che, se le facessero Bossi o Calderoli, provocherebbero verosimilmente una crisi di governo. L’analisi degli studiosi chiamati in quel ’92 dalla prestigiosa fondazione torinese rischiano, se rilette oggi, di far venire un colpo a Gianfranco Fini. Leggere per credere. Non solo l’Unità d’Italia, a parere degli eruditi autori del volume, «fu decisa in modo affrettato e non certo sulla base di criteri di adeguata corrispondenza tra capacità di governo ed esigenze economiche e sociali di un territorio», ma l’affermazione politica della Padania sarebbe addirittura di auspicio in un’ottica europea. Leggiamo cosa scrivevano, ricordando che non stanno parlando Borghezio o Speroni, ma storici dell’economia, docenti di Analisi delle istituzioni della Bocconi e di Economia politica della Statale di Milano: «La posizione della Padania - spiegano - continua ad essere potenzialmente felice. Situata geograficamente all'incrocio di due macro-assi dello sviluppo europeo, l'asse longitudinale nord-sud che attraversa il cuore dell'Europa, e il nuovo asse di sviluppo latitudinale est-ovest, che congiunge il dinamismo del sistema iberico con i nuovi spazi di formazione del Centro Est Europeo, la Padania può costituire un elemento di riequilibrio in Europa, impedendo che lo spostamento verso Nord crei differenziali di sviluppo e quindi nuove patologie economiche. Si può quindi parlare di ruolo europeo per la Padania».
In altre parole, la formazione di uno spazio politico padano (progetto che è poi la mission elettorale della Lega) sarebbe auspicabile per controbilanciare lo sviluppo disarmonico tra Nord e Sud Europa. Ma non è tutto. Una cartina pubblicata in quel volume si spinge molto più in là, molto più di quanto possa spingersi la Lega, per non essere tacciata di aspirazioni separatiste. Mentre Miglio teorizzava le tre macro Regioni, gli studiosi della Fondazione Agnelli proponevano una razionalizzazione ancora più radicale dell'istituto regionale. In parole semplici, in quel lavoro si ridisegnavano i confini interni della nazione, partendo dall’idea che le regioni non dovessero essere più venti ma dodici, con la soppressione di quelle sotto il milione e mezzo di abitanti. Tolte le cinque a statuto speciale, rimanevano sostanzialmente sette aree macroregionali che coincidevano grosso modo con gli stati preunitari, con un’entità specifica come appunto la Padania. Un’eresia da leghisti con le corna e i campanacci? No, l’analisi di un gruppo di serissimi politologi. Qualcuno, nella Lega, ha ripreso in mano quella cartina dell’Italia, insieme ad altri testi (dagli anni ’70 in poi) in cui si descrivono le radici e le prospettive della Padania.

Anche perché in fondo, ragionano i leghisti, è già successo che una «espressione geografica» (così il principe di Metternich parlava dell’Italia) sia diventata una nazione.

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