«Padre Pio resuscitò il mio bimbo Poi mi ordinò: “Converti i rossi”»

Dio è il Padre celeste, la Madonna è la Mammina, padre Pio è il Barbetta. E poi nei suoi discorsi c’è l’Altro, sempre pronto a metterci la coda. È lui, Satana – assicura Giuseppina – che stamattina s’è intromesso fra lei e il mio registratore digitale, impedendomi di vedere se l’apparecchio funziona oppure no. Ed è sempre lui, magari con la fattiva collaborazione di una nota azienda di software antivirus che controlla 370 milioni di computer sulla faccia del pianeta, ad avermi sabotato due Pc nel giro di appena quattro giorni, costringendomi a rinviare più volte questa intervista. Un diavolo tecnologico. Forse all’inferno c’è più silicio che zolfo, chissà.
Intendiamoci: di parlare, Giuseppina Piccinini non ne avrebbe proprio voglia già di suo. Erano 48 anni che i giornalisti la assediavano, e lei sempre zitta, chiusa in casa. Se solo ora s’è decisa a raccontare la sua storia e a farsi fotografare, è solo perché il vescovo di Modena, Benito Cocchi, ha dato l’autorizzazione; e il parroco di Medolla, don Davide Sighinolfi, non ha posto veti; e un mio lettore di Castellarano, di cui lei si fida ciecamente, ha garantito per me.
Anche se ha appena la quinta elementare, è la prima a rendersi conto che quanto le è capitato supera ogni immaginazione. Due figli nati prematuri e deceduti dopo poche ore. Un terzo figlio partorito sano, morto a 7 anni per aver mangiato formaggio contaminato e subito tornato in vita, alla presenza di un medico, per intercessione di padre Pio. Un voto che l’ha fatta diventare suora laica in famiglia. Il santo di Pietrelcina che le ordina di convertire i rossi dell’Emilia e per nove anni, fino all’ultima messa celebrata nella sua cella a San Giovanni Rotondo, resta in contatto con lei «nel calice». Le stimmate invisibili che l’hanno fatta giacere ore e ore sul pavimento della sua camera da letto, «con la pelle che bruciava, come se migliaia di spilli mi trafiggessero». Giovanni XXIII che le appare e le detta un numero telefonico del Vaticano, al quale risponde, stupefatto, il cardinale Jean Villot in persona, allora segretario di Stato.
Unici testimoni di questi e di altri prodigi sono stati il marito Gino Aldrovandi, 87 anni, un possidente terriero che era proprietario di un caseificio, e due presuli: Artemio Prati, vescovo emerito di Carpi, scomparso nel 2004, e Nicola Agnozzi, frate minore conventuale che fu vescovo nello Zambia e ad Ariano Irpino, oggi novantaquattrenne. Giuseppina ha annotato tutti questi avvenimenti su 82 quaderni. Poi, per maggior sicurezza, li ha riassunti su nastro. Prima di sottoporsi alle mie domande, recita una preghiera e pretende che ascolti la registrazione affidata a un vecchio magnetofono Philips. È una narrazione cronologica dei fatti secca, senza fronzoli, 17 minuti che si concludono con cinque alleluia. «Così quando non ci sarò più nessuno potrà dire che quello che mi è capitato non è mai accaduto».
In realtà di testimoni che le credono sulla parola ne ha già molti, perché da questa straordinaria avventura umana è sorta l’Opera missionaria di preghiera che raggruppa 600 famiglie in tutta Italia. Nel casone circondato dai campi, in località Malcantone di Medolla, non ci sono statuine della Vergine che lacrimano, né acque miracolose che zampillano da fonti taumaturgiche, né frotte di fedeli che vengono a chiedere la grazia. I seguaci della veggente si impegnano a pregare nel silenzio domestico per la conversione delle anime, per la difesa della vita nascente e per i preti e i religiosi, secondo l’indicazione ricevuta da padre Pio: «“Se tu non ami il consacrato, non aspettarti grazie della Mammina”, mi disse. “Non penserai mica che la Madonna soccorra i denigratori di coloro che le hanno dedicato la vita?”».
Giuseppina Piccinini è nata a San Giacomo Roncole, vicino a Mirandola, il 24 ottobre 1925. Indossa un tailleur blu scuro e al collo porta un crocifisso di semplice ferro ornato di ametiste. «L’ha benedetto il cardinale Carlo Maria Martini». Con la preghiera ha un’antica consuetudine. Il suo parroco era don Zeno Saltini, il padre di Nomadelfia, la comunità fondata nel 1947 nell’ex campo di concentramento di Fossoli. «Nomadelfia è nata in casa nostra. Don Zeno portava tutti i sabati la comunione al mio nonno paterno, Girolamo, un terziario francescano molto pio, che era infermo a letto. Io ero l’unica nipote e recitavamo sempre il rosario insieme. Ogni settimana don Zeno faceva al nonno lo stesso discorso: “Mi hanno affidato altri due orfani, non so che cosa dargli da mangiare”. Allora mio nonno gli diceva: “Va’ dal mugnaio, chiedigli a nome mio mezzo quintale di farina gialla e mezzo di farina di bianca, così almeno avrete polenta e pane”. Io avrei voluto farmi suora e vivere a Nomadelfia. Ma don Zeno mi dissuase».
Perché?
«Sosteneva che dovevo restare accanto al nonno per aiutarlo a pregare. Per la rabbia, smisi per un mese di recitare il rosario».
Ma poi riprese a farlo.
«Sì, e nel 1943, il giorno del Sacro Cuore, pregai il Padre celeste di trovarmi un ragazzo giusto. Così conobbi il mio Gino. Dopo due anni di fidanzamento e uno di lutto per la morte del nonno, ci sposammo. Era il 1946. Rimasi subito incinta. A sei mesi e mezzo ebbi un parto prematuro. Il bimbo sopravvisse poche ore. Fu battezzato Alberto e sepolto a Camurana. Gli alunni della scuola materna scortarono la piccola bara bianca fino al cimitero. Passati 90 giorni ero di nuovo incinta. Dopo sette mesi e mezzo nacque Lanfranco. Anche lui morì nel giro di poche ore e fu seppellito a Camurana. Per la vergogna, non volli il funerale».
Di che si vergognava?
«I nostri contadini avevano chi otto figli, chi dieci. E io invece non riuscivo a diventare madre. Mi segnavano a dito, mi davano della puvreina, poverina. Ero finita. Finché un giorno venne in casa un professorone a visitare mio suocero Abele, che era ammalato. Il medico mi chiese: “Come stai?”. Io gli risposi che non potevo avere bambini e scoppiai a piangere. “Vieni nel mio studio nei prossimi giorni”, mi disse. Andai. Dopo vari accertamenti, la diagnosi: “Hai l’utero contratto. Per portare a termine una gravidanza devi restare nove mesi immobile a letto”. Rimasta incinta per la terza volta, lo feci. Ero servita come una regina».
Come andò la gravidanza?
«Nel 1951, dopo nove mesi esatti, nacque Riccardo. Al terzo mese di gestazione fui persino operata di appendicite acuta, ma stavolta non ci fu nessun problema per il nascituro. Doveva proprio nascere ’sto putèl. Era bello come Gesù Bambino. Ma poi, nel 1958...».
Che accadde?
«Mangiò una formaggetta di pecora che un garzone aveva lasciato per troppo tempo in una caldaia di rame. I miei genitori si sentirono male subito: vomito e dolori atroci. Io e Gino niente, perché avevamo preferito lo spezzatino. Accorse il dottor Guerrino Bompani, medico di Mirandola. “È un avvelenamento. Che cosa hanno mangiato?”, chiese. In quel momento sulla scala che portava alle camere comparve Riccardo in pigiama. “Mamma, sto male”. Fece appena in tempo a pronunciare queste parole e crollò per terra».
Svenuto?
«Così pensavo anch’io. Ma il dottor Bompani gli tastò il polso, gli auscultò il cuore e disse: “Il bambino è morto”. Io scappai fuori di casa urlando».
È sicura che il medico non si fosse sbagliato?
«Morto, morto. L’ha testimoniato per tutto il resto della sua vita. “Giuseppina, hai avuto una grande grazia, ma io non ci credo”, diceva. Non poteva crederci perché era agnostico. Tant’è vero che di fronte al cadaverino e alla nostra disperazione, sentenziò: “Sentitemi bene, gente. Io adesso gli controllo i riflessi. Ma se il bambino non ha i riflessi, andate dai vostri preti perché non c’è più niente da fare”. Non riscontrò alcun riflesso, né pupillare né d’altro tipo. Riccardo era morto e cominciava a diventare freddo. “Bisogna vestirlo, prima che s’irrigidisca”, sussurrò mia cognata, e s’avviò a prendere i vestiti».
E lei?
«Presi mio figlio fra le braccia, lo sollevai al cielo e gridai: “Padre Pio! Padre Pio! Se sei veramente un santo, ridammi il mio bambino e io servirò la Chiesa come suora in famiglia”. In quel preciso istante Riccardo aprì gli occhi ed esclamò: “Mamma!”. Resuscitato. Sano. Né vomito né dolori».
E il medico?
«Era esterrefatto, come tutti i presenti. Dopo qualche giorno andai a raccontare il prodigio a padre Leopoldo, un francescano di Mirandola. Mi disse: “Lo sai che cosa hai fatto, Giuseppina? Hai fatto un voto sulla tua vita e su quella di tuo figlio di servire la Chiesa”. Ma si può essere una suora in famiglia?, chiesi io. “Sì, se ti farai guidare”. E mi mandò da sorella Erminia».
Chi era sorella Erminia?
«Una mistica che aveva preso il posto di mamma Nina, la sorella di don Zeno Saltini, alla guida della Casa Divina Provvidenza di Carpi. Con le sue orfanelle andava tre volte l’anno da padre Pio in Puglia. Raccontò al frate di Pietrelcina l’accaduto. E lui concluse: “Il Padre celeste le ha restituito il bambino. Ora lei deve servire la Chiesa cominciando dalla terra rossa in cui vive, offrendosi come vittima olocausto».
Che significa?
«Sacrificare la propria vita per la salvezza delle anime. Dalle 4 alle 9 del mattino mi univo a lui nel calice della messa per la conversione della Russia e dei miei contadini comunisti. Cominciai da Natascia. Era un’ucraina che aveva sposato un agricoltore di qui. Lei atea, lui cattolico. Avevano una bambina, Paola, che veniva a messa senza la madre. A me faceva una gran pena. Mi rivolsi al Padre. Mi rispose in un fascio di luce: “Ti sembro un giudice così severo da impedire a una figlia d’entrare in chiesa con la sua mamma?”. E Natascia diventò una buona cristiana».
Lei parla col Padreterno, ho capito bene?
«Ha una voce dolce, dolce, dolce. Anche quando mi chiese se volevo le stimmate visibili, come padre Pio, oppure invisibili. Io scelsi le seconde, perché temevo che si venisse a sapere in giro. Ignoravo che esistessero le stimmate invisibili. “Sono le più dolorose”, mi spiegò padre Manrico Rossi, teologo vaticano».
Soffre molto?
«Mi bruciano le mani e le braccia, sento una corona di spine che mi serra il capo. Ma ho più paura quando non mi vengono».
Paura di che cosa?
«Di non esserne più degna. Un giorno ho detto a mio marito: Gino, abbiamo il Padre nella stanza. “Va’ là, che te sei matta”, mi ha risposto. Un altro giorno, ero da sola, mi sento battere su una spalla e mi spavento. Gino mi porta da sorella Erminia. C’era lì il vescovo di Carpi, monsignor Prati. “Scrivi ciò che senti”, mi ordinò. Voleva capire se era davvero il Padre, che parlava, oppure l’Altro. L’indomani mi ritrovai a scrivere di getto un’antica sequenza che io nemmeno conoscevo, non l’avevo mai udita prima d’allora: “Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri. Vieni, datore dei doni. Vieni, luce dei cuori...”. Sua eccellenza mi rincuorò: “È lo Spirito Santo che ti parla”. Da quel momento, per dieci anni, tutte le mattine ho telefonato al vescovo Prati e al vescovo Agnozzi per riferirgli quello che il Padre celeste mi diceva».
Padre Pio non era interessato a questi messaggi?
«Eccome. Mi mise alla prova per tre mesi. A sorella Erminia ordinò di farmi accendere cinque candele in tutte le chiese in cui fossi entrata. Io non capivo il senso della richiesta, ma obbedii. Verso la fine di questa prova, mi venne un dubbio: sorella Erminia, ma non sarà che le cinque candele rappresentano i cinque continenti? “L’avevamo detto il Barbetta e io che ci saresti arrivata”, sorrise. “Vuoi salvare solo i tuoi rossi? Dal Papa in giù tutti hanno bisogno di salvezza”, fu il nuovo comando di padre Pio. Ogni tanto però l’Altro muoveva la coda».
Che cosa le combinava?
«Faceva grandinare solo sui nostri campi. Nel giro di pochi anni ci ridusse in miseria. Alla fine anche il Gino perse la pazienza: “Ti sembra giusto tutto questo?”. No, non era giusto. Perciò decisi di lasciar perdere le pratiche spirituali, ma senza dirlo a nessuno. Dopo due giorni arrivò una lettera di padre Pio da San Giovanni Rotondo. C’era scritto: “Figlia mia, ti esorto a tornare sul tuo cammino!”».
Mi descrive come avvengono le apparizioni?
«Da sveglia. Io ne sono atterrita. Come quando mi si presentò Giovanni XXIII per dirmi che dovevo parlare con un prelato del Vaticano e ricordargli che la scomunica del 1949 ai comunisti era caduta per sempre con le parole da lui pronunciate nel 1961: “Credenti e non credenti sono tutti nostri figlioli, appartengono tutti a Dio per diritto di origine”. Mi dettò un numero di telefono. Chiamai. Lei è un’eccellenza?, domandai. “Sono il cardinale Villot. E lei chi è? Chi le ha dato questo numero?”. Saputo in che modo ne ero venuta in possesso, mi scongiurò: “Devo parlarle di persona. Venga al più presto a trovarmi in Vaticano. Oppure vengo io a Modena”. Con mio marito decidemmo di noleggiare un’auto di piazza e di andare a Roma il sabato dopo. Allora facevo la magliaia e dovevo consegnare dei capi. La sera prima della partenza stavo attaccando i colli ai maglioni. Viene da me Gino, terreo: “Corri, senti che cosa stanno dicendo al telegiornale: il cardinale Villot è morto”. Al suo posto diventò segretario di Stato il cardinale Agostino Casaroli, il negoziatore della cosiddetta Ostpolitik vaticana con i Paesi dell’Est che segnò la caduta del Muro e dell’impero sovietico».
Quindi non ebbe più contatti con la Santa Sede?
«Fui ricevuta il 13 marzo 2002, con mio marito e mio figlio, da Giovanni Paolo II, che mi afferrò il braccio e mi spronò: “Brava, vai avanti, vai avanti. Non ti fermare mai!”».
Quando la voce dei fenomeni che capitavano nella sua cascina si sparse, come reagì la gente?
«Mormorava che avevo l’esaurimento nervoso. Io non potevo replicare, perché avevo fatto il voto di non parlare degli altri. Vede, dire male degli altri è lo stesso che maledire. Non bisogna farlo. “Piuttosto meglio cieca”, pregavo il Padre celeste».
Ma col suo voto per diventare suora in famiglia lei non veniva meno agli obblighi coniugali? Suo marito poteva non essere affatto d’accordo.
«Fra noi rimase tutto come prima fino al 1968, l’anno in cui padre Pio morì. Durante l’agonia del santo il mio Gino fu colto da un infarto e rimase in rianimazione per 40 giorni. Al momento di dimetterlo, il professor Scarlini dell’ospedale Santa Maria Chiara di Mirandola mi fece giurare che ci saremmo dimenticati del sesso. “Con quel cuore, per suo marito sarebbe un suicidio”, soggiunse. I fatti della vita s’incaricarono di decidere sia per Gino che per me. Da allora io ho potuto dedicarmi anima e corpo all’Opera missionaria di preghiera per la famiglia. Esisteva già nell’800. Mi sono limitata a ricostituirla sulla scorta di un antico documento che ho trovato nella nostra chiesetta padronale, dove il vescovo ci ha concesso di tenere in permanenza il Santissimo. Mio marito è diventato il San Giuseppe di questa casa».
E suo figlio Riccardo che cosa fa oggi?
«Il libero professionista. Ha studiato da perito agrario, s’è diplomato ragioniere ed è diventato commercialista. Poi ha deciso di prendersi la laurea in economia. Un giorno mi telefona: “Sto per dare l’ultimo esame, prega per me, mamma, mi raccomando”.

Io credevo che si trovasse all’Università di Chieti. Invece ho scoperto che mi chiamava da San Giovanni Rotondo: era andato sulla tomba di padre Pio. Riccardo lo sa bene d’esser stato miracolato».
(342. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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