Un Paese impazzito? Solo il 9 aprile

Francesco Damato

Anche a costo di scandalizzarvi, almeno all'inizio, vorrei difendere Romano Prodi dalle contestazioni subite per quel «Paese impazzito» scappatogli nei giorni scorsi. Una volta tanto gli è capitato di dire una cosa vera, e sensata. Sì, quest'Italia è proprio impazzita, ma non quando si è rivoltata contro la legge finanziaria all'esame della Camera, come crede il presidente del Consiglio.
No, l'Italia è impazzita il 9 e 10 aprile, quando gli ha fatto vincere le elezioni politiche, sia pure per il rotto della cuffia, e tra fondati sospetti di irregolarità, o di brogli. Essa si è follemente consegnata ad uno come lui e a una coalizione schizofrenica avvolta come una salsiccia in un programma di 260 pagine e rotte. Al quale ciascun partito della cosiddetta maggioranza, ciascun ministro, ciascun sottosegretario può oggi appellarsi per svolgere un compito di sostanziale interdizione verso gli alleati, sino a scendere in piazza per fare opposizione contro di loro.
Emma Bonino, ministro in carica di qualcosa che francamente non ho ancora ben capito, ha completato il giudizio di Prodi sul Paese in rivolta contro di lui dicendo ch'esso «assiste un po' esterrefatto alla confusione che si vede spesso» nelle riunioni di governo a Palazzo Chigi dove in effetti «ognuno vuole mettere la sua bandiera» sul terreno, annunciando poi compiaciuto ai giornalisti di avere parlato e anche votato contro il vicino o il dirimpettaio.
Ci sarebbe da chiedersi a questo punto perché mai Emma e il suo partito, quello radicale, partecipino ancora a questa «confusione». In verità, ci sarebbe da chiedersi anche perché mai siano entrati in questa coalizione, peraltro senza poter neppure contribuire a stenderne il programma elettorale. Essi purtroppo impazzirono già prima di aprile, quando decisero non solo di allearsi con Prodi, ma di rimanergli fedeli - come disse Marco Pannella - alla maniera dell'«ultimo giapponese»: quello che rimase in guerra sessant'anni fa contro gli americani anche dopo la fine del conflitto.
Sinora Pannella ha mantenuto la sua promessa, al limite di un parossistico eroismo. Dopo avere partecipato al megavertice della maggioranza voluto da Prodi a Villa Pamphili nel tentativo di blindare la coalizione di fronte all'insofferenza dei riformisti per il peso preponderante dell'estrema sinistra, il leader radicale ha riconosciuto che il governo si è rivelato «di buoni a niente». Ma ha assicurato che gli basterebbe vederlo diventare di «quasi buoni a niente».
Contento Pannella, contenta anche la Bonino, che lo ha appena aiutato infatti a licenziare in malo modo dalla segreteria del partito il povero Daniele Capezzone. La cui «colpa» non è di avere risvegliato nel vecchio Marco, come molti hanno scritto con una certa indulgenza politica, l'appetito del mitologico Crono, che divorava i figli perché crescendo non gli potessero succedere, ma al quale, in verità, la moglie Rea con un inganno riuscì infine a sottrarne uno, Zeus, che relegò il padre e gli altri Titani nel Tartaro.

No, la vera colpa di Capezzone, che Pannella ha processato in diretta a Radioradicale anche dopo averlo decapitato al congresso, è di avere tentato di contrastare davvero alla Camera con il suo tavolo trasversale dei «volenterosi» la famelica legge finanziaria di Prodi, fatta più di tasse che di riforme e di tagli agli sprechi. È una legge della quale Marco ed Emma dovrebbero semplicemente vergognarsi, tanto contraddice le loro vecchie e meritorie battaglie liberali.

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