Palazzo Chigi È lunga la lista degli aspiranti

Francesco Damato

A quanti, da Luca di Montezemolo in giù, e in su, si dichiarano delusi e preoccupati per le prove che Romano Prodi sta dando alla guida del governo viene voglia di dire: ben vi sta. Ciò vale anche per il mio amico Giampaolo Pansa, che ha appena dato voce sull’Espresso agli elettori dell’Unione che «a soli tre mesi dalla vittoria osservano furibondi il panorama di rovine attorno a Palazzo Chigi». E sono costretti a riconoscere che quella di Prodi è un’alleanza «non fra diversi ma fra opposti», che «si guardano in cagnesco senza stimarsi, ma disprezzandosi». Non ci voleva molto, in verità, per capirlo già prima, in tempo per evitare quella rocambolesca e stentatissima vittoria elettorale di una compagnia di giro costretta ora a sopravvivere ricorrendo alle grucce dei senatori a vita e alla respirazione artificiale dei voti di fiducia.
Una coalizione capace, dopo mesi di studi, dibattiti, confronti e quant’altro in una «fabbrica» allestita alle porte di Bologna, di produrre come programma un volume di quasi duecento pagine, destinato per la sua stessa dimensione a rivelarsi ambiguo e contraddittorio, non meritava di essere aiutata a vincere. E tanto meno di essere poi incoraggiata, con quei miserevoli numeri del Senato e con quel premio di maggioranza ottenuto alla Camera per il rotto della cuffia, e forse anche di imbrogli, a fare il pieno dei vertici istituzionali. Che peraltro assistono e qualche volta sono costretti a partecipare con crescente sofferenza allo spettacolo politico di Prodi e della sua squadra.
Penso, per esempio, al povero Franco Marini, arrivato a conteggiare anche la sua presenza per garantire alle sedute del Senato da lui dirette il famoso e vitale «numero legale». Ma penso anche al capo dello Stato, che deve «rammaricarsi» di quanto accade in Parlamento e all’interno dello stesso governo. È di pochi giorni fa il richiamo dei suoi uffici al ministro Antonio Di Pietro, autosospesosi dalle funzioni per poter dimostrare in piazza contro l’indulto votato da una presunta «banda bassotti» composta in buona parte da colleghi di governo e alleati politici.
In questa situazione Prodi con ineffabile sfrontatezza politica ha liquidato come abbagli estivi le previsioni di crisi formulate dagli avversari, ma anche da fiancheggiatori come il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, tornato di recente ad ammonire che il governo potrebbe cadere sulla «strada strettissima» della legge finanziaria, per quante «cabine di regia» siano state richieste e promesse per concordare con i sindacati i tagli alle spese.
Solo il presidente del Consiglio ignora, o finge di ignorare con una spavalderia che ne moltiplica la goffaggine, il dibattito politico che si è ormai aperto sulla sua successione all’ombra di quell'allargamento della maggioranza al quale sembra essersi convertito persino il presidente della Camera Fausto Bertinotti, evidentemente convintosi che il vero abbaglio estivo sia l’autosufficienza parlamentare della coalizione al governo da lui a lungo esaltata. Sono ben otto i cognomi già comparsi nelle cronache per una successione a Palazzo Chigi senza andare alle elezioni anticipate minacciate da Prodi. Li cito in ordine rigorosamente alfabetico: Amato, D’Alema, Draghi, Fassino, Marini, Monti, Padoa-Schioppa e Rutelli.

Ma l’elenco si allungherà di certo.

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