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Palermo, piccoli sogni: 600 euro al call center

Al centralino i giovani hanno trovato una risposta alla disoccupazione. Ma non al futuro: sono precari. Stefania, architetto: "Doveva essere un lavoro momentaneo". Fabio: "Ho una figlia, come campo? Finito il turno lavoro in ricevitoria"

Palermo, piccoli sogni:  
600 euro al call center

Palermo - Anche stamani Enzo ha inforcato il suo motorino acquistato di terza mano e si è slanciato lungo corso Calatafimi, la fronte (corrugata e oppressa dai soliti, oscuri presentimenti) rivolta al duomo di Monreale. Lungo la strada, come accade da un po' di tempo a questa parte, gli si sono fatte incontro una serie di facce che lui definisce «incongrue». La prima è stata quella sorridente, ornata di ciuffo sbarazzino, di Francesco Cascio, che da un cartellone di sei metri per sei esclama: «Buongiorno Sicilia». Più avanti, dalle parti della Casa di Riposo Padre Pio, non lontano dall'Albergo delle Povere, c'era quella di tal Ceraulo, uno dei candidati alle prossime elezioni che appartengono a «quelli del fare». «In Sicilia c'è futuro», garantisce da un altro tazebao il volto positivo e occhialuto del candidato Aricò. Ma il sogno più sogno di tutti, dice Enzo, 33 anni, è quello che sovrasta (con lo slogan «Io sogno», appunto) la faccia dolente da Maria Maddalena di Daniela Santanchè, in un glamourous bianco e nero. «E non si capisce - dice beffardo Enzo - se ha nostalgia di un mondo migliore, come certifica il suo manifesto, o del Billionaire del suo amico Briatore».

Afferma Enzo che le facce, e le promesse che alle facce sono appese, lo fanno ridere come quel vecchio documentario in bianco e nero in cui si vede Benito Mussolini, mani sui fianchi, mentre dice che «solo dei cervelli illanguiditi da puerili illusioni...». Insomma: acqua fresca. Un teatrino che non lo riguarda più. «Lucido pessimismo» lo chiama lui.

L'ufficio di Enzo sta a metà strada fra Palermo e Monreale, ma poiché il quartiere è in una specie di limbo (non ancora Monreale ma già lontano parente di Palermo) l'hanno chiamato Mezzomonreale. Palazzoni di periferia da cui sventolano lenzuola bianche che sembrano bandiere di resa; e poi subito canneti, palme, pini, vento e nuvole.

Dieci secondi dopo aver parcheggiato, il telefonino di Enzo ha emesso il tipico «pri-pri» del messaggio in arrivo. Ha guardato. Era un messaggio di Scriptim Ansa news. C'era scritto: «Gasolio record a 1,35. Tariffe verso stangata in aprile: +4,1 per cento gas e +3,9 per cento luce a causa del caro petrolio. Per famiglie, 57 euro l'anno in più».

Ora, se uno guadagna 600 euro netti al mese, ed è il caso di Enzo, di fronte a una notizia come questa non se la cava con un semplice «vaffa». Cioè: il vaffa prorompe uguale. Ma subito dopo, nella testa, gli prendono a turbinare una serie di simboli che rotolano uno sull'altro come le ciliegie, le pere e le pesche di certi giochi elettronici per gonzi che si vedono nei bar. Nella testa di Enzo, al posto delle pere ci sono bollette, pieni di carburante, pizze con gli amici da diradare, la spesa, l'affitto, le sigarette da contingentare...

Cinque minuti dopo, Enzo era seduto alla sua consolle. Ha posato il casco sulla scrivania, lo ha sostituito con una cuffia e ha cominciato a dire: «Buongiorno, sono Enzo. In che cosa posso esserle utile?» Così, per quattro ore di seguito, alla fine delle quali sarà stato utile a circa 100, 120 postulanti che chiamano da tutt'Italia. Una buona cinquantina l'hanno mandato a quel paese; altri sono stati bruschi, arroganti, o stizziti come bambini alle prese con giocattoli troppo complicati. Qualcuno era perfino educato. Lui: calma e gesso. Fa parte del gioco, gli hanno spiegato al momento dell'assunzione. Pazienza, soprattutto.

Enzo è uno dei 2.500 «callcenteristi» che notte e giorno si alternano nel palazzone color nocciola e caffè della Cos, gruppo Almaviva. Il più grande call-center d'Italia. Insieme con i suoi confratelli e le sue consorelle (che sono il 70 per cento della forza lavoro) Enzo è entrato a far parte di quella nuova classe operaia prodotta dalla modernità, dal progresso, dal chip: terziario proletarizzato, la generazione di quelli che ci eravamo abituati a chiamare precari, flessibili, atipici, quelli con il contratto a progetto e la nostalgia del posto fisso.

«Il posto fisso, se non altro, ora l'abbiamo garantito a tutti», dice con una certa soddisfazione Michele Candela, capo centro della Cos di Palermo. «Tutti i contratti a progetto sono stati stabilizzati entro la fine dello scorso anno. Seicento dipendenti hanno un contratto full time o part time, a sei ore. Sono i primi arrivati, quelli assunti quando abbiamo aperto, nel 2001. Tutti gli altri lavorano quattro ore, distribuiti nelle fasce in cui si registrano i picchi di traffico maggiore: dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19.30». La paga? Millecento euro netti per 8 ore; ottocento per 6 ore; cinquecentosessanta (seicento con qualche extra) per i quasi duemila tra uomini e donne che ne lavorano 4. Dice Candela che in termini di Fte (full time equivalent: l'acronimo americano va molto, nell'evo moderno) è come se la Cos avesse dato uno stipendio intero a 1.460 persone: una manna dal cielo per una città come Palermo, dove se lasci 2 euro di mancia in una trattoria della Cala, a Sette Cannoli, ti riveriscono chiamandoti «professore».

Che i call-center migrassero al Sud era scritto nelle stelle. «Niente fabbriche, niente merci alle quali far risalire la penisola, coi costi che immagina. Per contro: una scolarità alta, tipica del Sud, dove si studia e magari ci si laurea perché tanto, altro da fare non c'è...», riassume Candela, il capo centro.

Se avete un problema col vostro telefono Wind o se il decoder di Sky fa le bizze, la voce che vi risponderà ha le vocali allargate e il cantilenante saliscendi di un palermitano o di una palermitana. Chiamate da Udine, da Aosta, da Ferrara? Sempre al Cos di Palermo finite. Centomila chiamate al giorno. Senza contare quelle che planano sull'altro call-center del gruppo, l'Alicos, che gestisce Alitalia e Tim. Sono loro il grande orecchio d'Italia.

Ho trascorso una intera mattinata dentro il palazzo color nocciola e caffè di Mezzomonreale. Ho parlato con Jessica, Fabio, Giuseppe, Mario, Stefania, Giorgia, Rosalinda e non so quanti altri. Ogni volta mi ha stupito la loro misurata allegria, la contentezza di lavorare in un luogo accogliente, pulito, ordinato; la malinconica serenità che viene dalla consapevolezza di poter contare su uno stipendio. La soddisfazione, soprattutto, di aver trovato un posto di lavoro. Come dite? È uno stipendio da fame? È vero. Ma è Palermo. Altro non c'è.
Stefania, 37 anni, laurea in architettura, è qui dal 2001. Ora l'hanno presa all'ufficio del personale. Ma anche lei ha cominciato chiedendo a migliaia di sconosciuti in cosa poteva esergli utile. «Doveva essere un lavoro momentaneo. Così dicevamo tutti. Una fase di passaggio. Un po' di soldi per non gravare sulla famiglia. E invece... A Palermo il mercato del lavoro non esiste. Se vuoi fare una professione, e non hai un genitore, un parente che ti tira dentro uno studio, è impossibile. Il pubblico impiego? Già appaltato ai raccomandati, agli amici degli amici. Nei ritagli di tempo disegno qualche progetto, ho una consulenza tecnica col Tribunale di Agrigento. Giusto per non perdere la mano, e i sogni...».

Fabio, 37 anni, maturità artistica. Ex barman, ex pubbliche relazioni, ex venditore di libri e macchine per il caffè. «Il call center è stato una risorsa per la città. A molti ha garantito la sopravvivenza. Ma è un galleggiare sopra la m... Io sono separato e ho una bambina. Come la campo? Dopo il call center vado a lavorare nella ricevitoria di mio zio...».

Giorgia, 31 anni, maturità artistica, due figli, il marito finanziere. Maria Vittoria, laureata in lingue. Rosanna, liceo classico. Vite grame, strette, e il call center come una scialuppa di salvataggio. Così è anche per Vincenzo, 32 anni, diplomato, separato con una bambina di 4 anni, tornato ad abitare coi genitori. «Cento lavoretti in passato. Mal pagato, mai messo in regola. Qui lavoro 4 ore, ma è come un posto in banca. Per il resto mi arrangio. Domani ho chiesto un giorno di ferie. Vado a fare consegne a domicilio di fiori. Dodici ore di lavoro per 50 euro. In nero, naturalmente».

Solo vent'anni fa avrebbero trovato un posto in banca, alle Poste, avrebbero insegnato. Un diploma, una laurea bastavano per sbarcare sulla battigia della classe media. Ora eccoli qui, in 70 per ogni stanzone: figli di una metamorfosi incompiuta, mezzi operai, mezzi impiegati. Come Anna, 26 anni, laureanda in lettere moderne, tesi sulla rivoluzione industriale, o come Mario, 37 anni, anche lui tornato giocoforza a stare coi genitori. Fine dei sogni. «Ora non ci chiediamo più che cosa ci piacerebbe fare, ma quello che possiamo fare».

Qui Palermo. Le chiamate inbound (quelle in arrivo) oggi sono alluvione. I duty manager e i team leader (soldi pochi, qualifiche chic) hanno il loro bel da fare. Nell'alveare operoso del Cos, mozziconi di conversazione: «Signor Guttadauro? Sì, ha Sky su misura: intrattenimento, documentari e news in omaggio». «Come? Ha provato col decoder nell'altra stanza?...». «Buonasera, sono Jessica... le auguro una buona giornata». Su, verso Monreale, lenzuola che sbattono, come segnali di resa. Enzo ha finito. Torna verso casa. Rivedrà i cartelloni con le facce «incongrue» dei candidati.

Dice Enzo che non voterà per nessuno. «Ci fosse almeno uno che avesse la faccia tosta di presentarsi come mago della pioggia: uno così, per simpatia, si potrebbe pure votare. Gli altri promettono tutti bel tempo. Ma chi ci crede?».

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