Palmucci, il sogno di essere «Ironman» a 43 anni Il romano, vero antesignano del triathlon, si prepara alla massacrante gara delle Hawaii

Emiliano Leonardi

Romano, 43 anni, un figlio (Alessandro), Danilo Palmucci è un atleta che continua a lasciare il segno nel pianeta-triathlon nonostante il macigno di quella che viene considerata la «veneranda età». Be’, diciamo la verità. Scritta così, l’introduzione, sembra perfino banale per chi viene definito un ironman e, dopo aver conquistato poche settimane fa il titolo mondiale della sua classe di età di Aquathlon, non si stanca di andare avanti e si appresta a partire per le Hawaii per quella che è considerata la gara-mito degli specialisti dell’«un po’ a nuoto, un po’ in bicicletta e un po’ di corsa». Non contento, Palmucci combatte in prima linea il doping.
Già, il doping: lei ha un’idea vincente per debellare questo spettro?
«La mia soluzione è abbastanza semplice da applicare: a tutti gli atleti che si tesserano, dovrebbero essere richieste, oltre alla visita medica sportiva (con la classica prova da sforzo cardiologico e l’analisi delle urine) le analisi del sangue fatte presso la Asl. In questa maniera ogni atleta avrebbe una sorta di carta d’identità, un vero e proprio profilo ematologico. Un’“impronta digitale” da cui sarebbe difficile scappare».
Poca visibilità, pochi soldi: perché fare questo sport così stancante?
«Premettiamo: il triathlon nasce come una scoperta interiore».
In che senso?
«Deve essere un qualcosa che si sente dentro e che fa parte dell’atleta. Le faccio un esempio: tanti anni fa, quando lessi la notizia che ci sarebbe stata la prima gara di triathlon, a Ostia, il 16 settembre del 1984, dissi fra me e me che finalmente avevano scoperto il «mio» sport, perché questa filosofia di vita l’avevo scoperta da un pezzo. Ero un nuotatore stanco di fare tante vasche e, nonostante qualche successo a livello regionale, ormai mi muovevo solo in acqua libera, al lago o al mare. Poi, grazie alle passioni sportive di mio padre, il ciclismo e la maratona, ho allargato le mie vedute, scoprendo di avere in questi sport potenzialità perfino superiori rispetto al nuoto. Quando il triathlon varcò i nostri confini nazionali, mi ritrovai con una buona base per gareggiare».
Dunque lei è stato un triathleta prima che nascesse lo sport...
«Sì, anche se 22 anni fa non esistevano le metodologie di allenamento che si sono sviluppate nel corso degli anni a seguire. Per me comunque è stato facile sia cominciare a praticarlo sia scalare in poco tempo le classifiche».
Quali sono stati i primi successi?
«I campionati italiani, vinti con la maglia della S.S. Lazio, società per la quale difenderò i colori anche alle Hawaii, fra pochi giorni, in una delle gare più belle e appassionanti di questo sport».
Come è avvenuto il passaggio dal dilettantismo al professionismo?
«Nel 1987 venni ingaggiato da una squadra europea, la “Winning club”, ed è così che cominciai la carriera professionistica. Praticamente facevo da testimonial a questo sport. Non c’era guadagno ma benefit, come alberghi e trasporti. Insomma: sono stato una sorta di Pavarotti del triathlon!».
Lei da solo?
«No, eravamo una trentina di atleti, bene o male sempre gli stessi, e il vincitore delle gare usciva sempre da questa cerchia».
Qual è stato il momento più bello della sua carriera?
«Sicuramente nel 1998, in Francia, quando sono arrivato terzo all’Ironman di Embrun. Lì tornai sul podio dieci anni dopo aver vinto la prima volta. Ricordo che negli ultimi dieci chilometri rimontai posizioni su posizioni, percorrendo quei 10mila metri in 34 minuti. Quella fu una sensazione psicofisica di bellezza indescrivibile, un momento di grazia e di lucidità straordinari che ho rivissuto solo quando è nato mio figlio».
Un atleta generalmente viene considerato vecchio a 30 anni. Lei sta dimostrando il contrario.
«È una rivincita, perché io spesso ho vissuto lo sport nel momento sbagliato. Ad esempio nel ’95, dopo il Mondiale di Cancun, venivo considerato uno dei migliori atleti del mondo, ma mi esclusero dalla nazionale perché in vista di Sydney 2000 sarei stato troppo vecchio. Però una piccola soddisfazione l’ho avuta. Qualcuno, fra i triathleti che avevo battuto a Cancun, tanti anni dopo, ha vinto i Giochi di Atene!».
Esiste una scuola di triathlon?
«Una vera e propria scuola non esiste. Però, negli ultimi tempi, sono stati raggiunti accordi di massima con il mondo dell’istruzione, e le informative che arrivano agli insegnanti di educazione fisica sono per ora il punto di partenza».


Lei ha un sogno nel cassetto?
«Sì. Subito dopo il traguardo, alle Hawaii, vorrei poter abbracciare mia moglie e mio figlio. Una fotografia con loro, dopo l’arrivo di quella gara, sarebbe praticamente una specie di medaglia d’oro».

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