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"La pandemia ha cambiato tutto. Ricostruiamo senza nostalgie"

Insegna a Oxford, è il filosofo dell'"Infosfera": "Possiamo scrivere la storia di domani senza gli errori del passato, ripensando la società"

"La pandemia ha cambiato tutto. Ricostruiamo senza nostalgie"

«Con la pandemia è come se ci fosse crollata la casa. Ma era una casa di cui ci lamentavamo: vogliamo ricostruirla come era prima o vogliamo crearne una migliore? Ci vuole più design e meno nostalgia. Quindi più progetti e meno rimpianti». La sintesi è di Luciano Floridi, una delle voci più autorevoli della filosofia moderna. Romano, classe 1964, Floridi è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell'Informazione nell'università numero uno al mondo: quella di Oxford. Qui ha lanciato il Digital Ethics Lab, che dirige. È inoltre alla guida del Data Ethics Group dell'Alan Turing Institute, l'istituto britannico per l'intelligenza artificiale e la data science. Un cervellone cui si rivolgono enti (Commissione Europea, Camera dei Lord, Governi) e aziende-colossi (Cisco, Facebook, Google, Ibm, Microsoft) per studi in materia di digitale. Floridi, da sempre, analizza e suggerisce come affrontare le sfide poste dal digitale.

Si fanno previsioni e proiezioni. Ma lei addirittura propone di progettare il post-virus?

«Sì, non ha senso limitarsi a tentare di capire cosa succederà se non segue un progetto. La storia non è un treno che procede su un binario prefissato. Oggi costruiamo la storia di domani. Leggo che dobbiamo tornare alla normalità precedente. Veramente ci piaceva tanto? Avevamo problemi di ingiustizia sociale, di calo dell'occupazione, questioni di tipo ambientale, crisi politiche. C'è molto passato da salvare, ma anche tanto futuro nuovo da costruire. Non si tratta di rimpiazzare una cosa con un'altra, ma affiancare cose del passato con altrettante cose buone per il futuro».

Potrebbe voler dire sposare il meglio dell'analogico con il meglio del digitale?

«In questo periodo stiamo vivendo un po' troppo online. Siamo passati dal tutto analogico alla vita sullo schermo. All'uscita dalla pandemia dovremo trovare un giusto equilibrio».

E qui entra in campo «l'onlife», per dirla con il termine da lei coniato e che torna protagonista anche nell'ultimo libro «Infosfera» (Cortina editore). Di cosa stiamo parlando?

«Infosfera è un tentativo di caratterizzare lo spazio in cui viviamo. In questo spazio c'è l'onlife, esperienze ibride in parte digitali e in parte analogiche, in parte online e in parte offline. Noi siamo data subject, così ci definisce anche la legislazione europea, organismi informazionali interconnessi, che condividono con altri agenti biologici e artefatti ingegneristici un ambiente globale costituito da informazioni. La nostra vita è sempre più vissuta onlife».

E poiché siamo «data subject» i nostri spostamenti potrebbero essere mappati per contenere il Covid-19. Bene per la salute, ma non possiamo dire altrettanto per la libertà.

«Di qui ai prossimi sei mesi è probabile che avremo una pressione significativa sui diritti umani e civili a favore della salute pubblica. In un contesto di pandemia è possibile che la società decida, insieme, non come imposizione dall'alto, di limitare momentaneamente e solo se necessario, utile e in modo proporzionato, alcune libertà individuali, inclusa la privacy, con una chiara e esplicita scadenza nel tempo, in maniera democratica. Si decide insieme di fare questo sacrificio, ed è lo scenario che disegnerei».

C'è anche chi auspica che il Covid finisca per dare una bella «spallata al capitalismo»...

«È straziante pensare che da tutta questa brutta storia emerga un ritorno al passato che non è mai esistito, con un centro-sinistra al quale sembra mancare una progettualità liberale all'altezza delle nuove opportunità e sfide. Significa non fare i conti con la realtà e non rimboccarsi le maniche per progettare il nostro tempo, che non può e non deve essere un Novecento riscaldato in salsa digitale. Sento troppi parlare di neo-questo e neo-quest'altro, neo-umanesimo, neo-illuminismo, neo-miracolo industriale. Lo sforzo d'innovazione è lodevole, ma la direzione è sbagliata, bisogna prendere ispirazione, ma non ricopiare soluzioni che non funzionano più. C'è molto lavoro da fare, ma non è semplicemente un recupero come sento dire da tanti, dal Pd al The Guardian. Chi parla di stato imprenditore, di statalizzazione delle imprese, molto semplicemente non ha capito le lezioni della storia».

Immagini di dover spiegare cosa andrebbe fatto a chi «non ha capito».

«Ne parlo in un nuovo libro (la revisione ampliata di un testo del 2017), intitolato Il Verde e Il Blu Idee ingenue per migliorare la politica (Cortina). Il verde è il colore dei problemi ambientali, sia biologici sia sociali, che abbiamo. Il blu è il colore delle tecnologie digitali che potrebbero aiutarci a risolverli. L'alleanza tra il verde e il blu, per un'economia dell'esperienza e della cura, non delle cose e del consumo, potrebbe essere la strategia giusta. In questo, la creatività, l'innovazione, la capacità di progettare, investire e gestire nuove iniziative devono essere sostenute dalla società in vista del mondo in cui vogliamo vivere, ma sono realizzate, raffinate, e messe a frutto da una moltitudine di intelligenze individuali, che gareggiano per capire quando, dove e come iniziare, continuare o smettere di fare qualcosa, e lavorare di più, meglio, o diversamente per realizzare quel qualcosa, tempestivamente, in modo efficiente ed efficace. La divisione tra pubblico e privato non è quella tra chi investe a fondo perduto e chi investe con profitto, ma tra organizzatore e arbitro delle regole del gioco da un lato, e giocatori dall'altro. Lo stato imprenditore è come l'arbitro che, pur non essendo capace, inizia a giocare a favore di una squadra: una pessima idea».

E nel nuovo mondo che facciamo di questa Europa in crisi?

«Abbiamo pensato l'Europa in termini di confini, ora dobbiamo pensarla in termini di valori. Si può essere europei senza esserlo geograficamente, penso al Canada. E si può non essere europei pur essendolo geograficamente, penso all'attuale situazione in Ungheria. Dobbiamo riuscire a mobilitare la solidarietà tra di noi e una nuova voglia di vincere contro le catastrofi evidenti, come la pandemia, e quelle striscianti ma forse anche più gravi, parlo soprattutto della distruzione del pianeta, dell'ingiustizia sociale, e della sofferenza umana. Invece di fare a gara tra chi arriva prima su Marte, facciamo a gara tra chi salva prima la terra e l'umanità che la abita».

L'Europa esporta matematici e informatici, esperti di Intelligenza Artificiale (IA), e importa prodotti concepiti - quasi esclusivamente - negli Usa e Cina. Europa solo terra di consumo e conquista?

«Non mi piace contrapporre i due poli, Cina e Usa, con l'Europa come terzo perdente, anche perché l'Europa potrebbe appartenere a un polo costituito da Canada, Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e per certi aspetti Israele, una bella squadra. E poi l'intelligenza artificiale è fatta di tanti pezzetti, c'è la robotica, dove l'Italia è fra i leader, quindi il processamento del linguaggio naturale, Siri tanto per intenderci, il machine learning. Ognuno di questi settori ha una mappatura diversa. Sono le applicazioni e non l'IA in generale a fare la differenza. Non si arriva alla conclusione che il mondo della letteratura è dominato da Microsoft perché si scrive con Word. Semmai la questione è un'altra: è indubbio il vantaggio di tipo strategico di chi sviluppa gli strumenti più avanzati nel settore bellico e di cyber security. Qui l'Europa dovrebbe fare di più e meglio».

Rimane il fatto che l'Europa è indietro in settori chiave, per esempio non ha un'industria software forte.

«Vero. Abbiamo inventato tante cose poi perse per strada. A partire dalle tante aziende - vedi quelle in area scandinava, oltre alla classica Olivetti - che andate in crisi non sono state rimpiazzate, oppure una volta di successo sono state comprate».

Quindi entrano in gioco modelli di capitalismo diversi?

«Quello aggressivo americano e cinese paragonato a un capitalismo più gentile di matrice europea. Ed è difficile fare i gentili tra gli aggressivi. Bisognerebbe rendere la vita un po' più facile ai locali e un po' più difficile agli altri».

Ora anche la parte più ritrosa d'Italia è sbarcata sul web. Penso a quella legata ad antichi saperi. Però c'è ancora tanto copia/incolla: si porta in rete ciò che c'è nel fisico.

«Bisogna trarre vantaggio dalle opportunità offerte dall'analogico e dal digitale, combinandole. Faccio un piccolo esempio. Gira sul web una famosa foto di un gruppo di studenti che nel Rijksmuseum di Amsterdam, davanti alla Ronda di notte di Rembrandt, invece di guardare il capolavoro guardano i loro telefonini. Sono state dette tante stupidaggini su questo «segno dei tempi». In realtà gli studenti sono stati colti mentre approfondivano lo studio del quadro sull'app del museo, come mostrano altre foto che li mostrano invece assorti nell'osservazione dell'opera, insieme all'insegnante. Questo è il futuro che spero diventi la nuova normalità».

In tutto questo ci sono generazioni a confronto. È ancora appropriato parlare di generazione X, Y o millennials, Z?

«L'unica distinzione che mi aiuta mentalmente è quella fra chi ha visto il mondo solo analogico, e dunque è cresciuto con le cabine telefoniche a gettone e le cassette di musica, come me, e chi non ha mai visto un mondo senza Facebook, Instagram, Google, Amazon, Wikipedia, Netflix, come i miei studenti. Lì sta il divario. Chi non sta a contatto con i giovani, penso che fatichi a entrare in quest'ottica».

Lei ha figli?

«Purtroppo no. Mi consolo grazie alla mia professione di docente».

Quanto sono brillanti i giovani dell'Università di Oxford?

«Premetto che i miei corsi sono post laurea, quindi ho studenti di specializzazione con i quali si va oltre l'abc, anzi spesso è un rapporto di collaborazione. Non lo dico per falsa modestia, ma seguirli è un vero privilegio. Sono giovani molto brillanti e motivati, mossi da passione e interesse, e questo non vuol dire che ne sappiano più di altri. Il punto è che vengono da contesti in cui la cultura è sempre stata un valore, la scienza è sempre stata insegnata, studiare è la cosa più interessante che ci sia. Sono dei privilegiati perché fioriscono in un contesto in cui non devono remare contro il sistema, semmai sono avvantaggiati dal sistema».

Sua moglie, Anna Nobre, è professore ordinario di neuroscienza e Direttrice del Dipartimento di Psicologia Sperimentale a Oxford. Di cosa parlano, a tavola, un filosofo e una neuroscienziata?

«Di tutto questo. Io imparo tanto da mia moglie, avendo interessi da analfabeta per la medicina, il cervello, la biologia, la chimica. Faccio tante domande da ragazzino curioso. Viceversa mia moglie mi chiede cose che riguardano la filosofia, la logica matematica, le scienze sociali, o la cultura classica. Il valore aggiunto sta nel rispetto per tutte queste forme di sapere. E ciò mi porta a dire che stiamo educando male i nostri ragazzi, li induciamo a pensare che è importante sapere chi è Giacomo Leopardi, ma non è grave se uno ignora chi sia David Hilbert. Che si deve conoscere la storia dell'arte ma non che cosa sia e come funzioni lo spread. Questo non va bene».

Sta dicendo che quando la scuola ignora l'attualità e non approfondisce le discipline scientifiche compie un delitto?

«Noi viviamo una cultura ben descritta dal Manzoni. Una cultura di Azzeccagarbugli, di Don Abbondio che sa due frasette in latino, o Don Ferrante che cavilla su questioni inutili. E così, quando si sfoglia il giornale, si salta la pagina dell'Economia perché non si sa interpretare quel grafico, o non si capisce bene che cosa sia l'inflazione. E questo genera Antivax e simili sciocchezze. Quante persone credono ancora all'oroscopo? O provi a far stringere le mani a quattro persone incrociandole e vedrà l'effetto. È un mondo che abbiamo voluto e coltivato. Si dice che il liceo classico sia formativo. È vero. E io personalmente sono felice di aver frequentato il Tito Lucrezio Caro a Roma. Ma la matematica, l'informatica, l'economia, la sociologia e tante altre materie le ho dovute studiare dopo, per conto mio. Un vero peccato. Così abbiamo persone, filosofi inclusi, che disprezzano la scienza come se fosse un sapere minore.

Invece bisognerebbe insegnare da subito l'amore per tutto il sapere, che non conosce divisioni interne».

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