Politica

Ma il pantheon resta vuoto

Francesco Rutelli ha detto a Piero Fassino che «siamo già lo stesso partito». Ha così gettato il cuore oltre l'ostacolo. Dove per ostacolo si deve intendere la fase costituente che Ds e Margherita hanno formalmente aperto. Sul piano tecnico c'è il problema della modalità della fusione non solo tra due organizzazioni, ma anche tra correnti e gruppi, a cui aggiungere gli «esterni». C'è il problema di un patrimonio, anche materiale, da unire. E c'è soprattutto il problema di due classi dirigenti - in volgare due nomenclature - da selezionare ed amalgamare non solo in Parlamento, dove esistono già i gruppi comuni, ma in ogni centro di potere rappresentativo e no diffuso in Italia. Non sarà semplice trovare la sintesi, passare da due a uno, soprattutto perché in discussione è il ruolo pubblico di professionisti della politica.
Ma non sarà semplice anche perché - dati gli addii, asciugate le lacrime e spentisi i riflettori sulla forza di volontà che ha contraddistinto i due appuntamenti congressuali - restano aperte le grandi questioni di fondo. Alcune sono state rinviate o discusse secondo un vecchio metodo doroteo, come la decisione sulla «famiglia europea di appartenenza». Altre riguardano il futuro, come la leadership, e l'affollamento non è stato certo sfoltito dall'impegno di Prodi a lasciar libero il campo con la conclusione di questa legislatura.
Ma c'è soprattutto il grande problema irrisolto del presente. Cioè la forza del riformismo nella sinistra italiana. Sia al PalaMandela che a Cinecittà il Partito democratico è stato indicato come l'occasione della rivincita e della resa dei conti con l'estremismo. Nel frattempo, come peserà questa ambizione in una coalizione di governo che ha fatto tabula rasa dell'innovazione economica e sociale? Fassino a Firenze ha scelto la strada della prudenza, è stato generico, non ha dato una battaglia sui contenuti, ha cercato di affrontare la scissione di Mussi e di tenere insieme il corpaccione della Quercia soprattutto con la mozione degli affetti. Rutelli a Roma è stato invece molto più concreto, ha continuato a dire quello che pensa. Il confronto fra le due impostazioni ha riproposto la vecchia questione, fra il «riformismo delle parole» e l'innovazione che vuole diventare governo. Il Partito democratico la riprodurrà esattamente come in passato e come in questo anno dell'Unione? La premessa non è incoraggiante.
Dalle parti di Rifondazione è stata subito colta questa debolezza. Franco Giordano è passato all'attacco, consapevole della supremazia dell'area antagonista. Ha riproposto l'appeal della parola sinistra di fronte alla genericità di un progetto che si chiama «democratico», che costruisce dei pantheon, ma che continua a non saper o poter dire come intende proporre concretamente l'innovazione alla società italiana.


Dopo aver ascoltato gli intensi dibattiti intrecciati di Ds e Margherita il rischio appare questo: che un progetto importante per il sistema politico possa essere reso vano dalla fragilità dell'esperienza di governo a cui è legato - esperienza il cui significato è l'opposto del riformismo - e dalla genericità dei contenuti.
Renzo Foa

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