Paolo Conte, il dandy spaesato Ecco i segreti del suo Mocambo

Esce il libro «Quanta strada nei miei sandali» sulla musica dell’artista che dice: «Sono un solitario, scelgo gli amici per affinità»

Vittorio Macioce

Racconta, Cesare, racconta. Ma questa volta in fretta senza pause e sigarette. Il sole la mattina batte proprio sulla tastiera del computer. Cesare G. Romana arriva puntuale da mesi, da lontano si sente il ticchettio delle parole che scivola leggero. Scrive Romana, quasi senza fermarsi, come una rumba, come un boogie, come un assolo di jazz. Sulla scrivania ci sono diversi cd firmati Paolo Conte, una serie di fogli recuperati da vecchi taccuini, appunti da cronista. Il ritmo delle parole rallenta solo quando c’è un buco nella memoria e allora Romana indossa vecchie cuffie anni ’80, mette il Cd nel computer e fa partire una verde milonga, un tango Sudamerica, un valzer Novecento o un dancing da balera. Tutta questa roba, note, storie e arrangiamenti, finiranno in Quanta strada nei miei sandali, in viaggio con Paolo Conte.
È il suo ultimo libro, edizioni Arcana, una nuova avventura da raccontare accanto a un amico, uno di quelli di vecchia data, conosciuto in un giorno del ’76, o forse del convulso ’77, come ricorda lui, critico musicale di questo giornale, mentre in sottofondo vanno le parole strascicate di Genova per noi. «Macaia, scimmia di luce e di follia/foschia, pesci Africa/sonno, nausea, fantasia». «Bruno Lauzi - racconta Cesare G. Romana - aveva rilanciato ai vertici Genova per noi e fu lui che mi presentò Paolo Conte. Accade una sera, di quelle appiccicose di caucciù che ci infligge l’estate milanese. L’avvocato di Asti cantava al Verdi di via Pastrengo, un teatrino difficile da trovare, dove la platea raramente ospitava più di venti persone. Quella sera gli spettatori erano trenta: per il locale un successo inconsueto, “si vede che questo Conte tira”, sentii dire da una maschera».
Sono passati trent’anni da quell’estate. Ora Conte - come l’ha definito un critico di Montreal - è l’anti-cliché italiano per eccellenza. Sulla scrivania di Romana ci sono i disegni di Hugo Pratt, che spiegano meglio di qualsiasi teoria l’anima da viandante di provincia dell’avvocato che fa jazz. Conte sbircia il mondo con lo stesso sguardo di Corto Maltese: l’avventura, il viaggio, la fuga, l’altrove. L’orizzonte della provincia si apre e sulla scena irrompono personaggi usciti da chissà quale secolo o quale terra: scimmioni dolci e disorientati («Lei invasata e volubile, lui un orango che si muove»), capi indiani alti due metri che si chiamano Max, piloti di Aguaplano, pamperi in ratafià, clown con la faccia in prestito, e bionde scappate da una tela di Lichtenstein. Tutto il resto è musica che passa di città in città, il canto di una New York virata Chinatown, Genova e Shanghai e poi Milano, Paris, Baires, Stradella, Timbuctù, Vienna, Zanzibar, Babalù. «E una città lontana, tutta di madreperla, argento, ferro, vento e fuoco, e non trovavi qui nessuno per parlarne un poco», proprio come il ballerino di Boogie. Ma poi la strada sta zitta e ti prende quella nostalgia di curaçao che ti riporta al solito Mocambo, dove la gente odora di dopoguerra, aspetta Bartali, la Topolino è amaranto, e si «sbagliava da professionisti».
Paolo Conte - ti insegna Romana - è un dandy con i baffi che vibrano, lo smoking e il pianoforte a coda. È il Novecento che riverbera il passato con tutta la sua fame di modernità. È un avvocato con le palle, figlio di notaio, con l’hobby della pittura e lo schiribizzo della musica. Uno che canta Brassens e sembra Humphrey Bogart, poeta introverso e ironico dandy, con quel malessere che i francesi chiamano ailleurs, quella strana sensazione di trovarsi ovunque e sempre fuori posto. Uno che quando parla di sé dice: «Sono un solitario e ho pochi amici, però mi sento libero di sceglierli per affinità. Il gusto di dare quattro calci a un pallone lo divido con chi prova lo stesso piacere, poco importa se notaio o contadino». Qualche volta l’avvocato mette in scena una vena di misoginia, con quelle donne che a volte si sa sono scontrose, ma forse han voglia di far la pipì.
La verità è che nelle storie di Conte ci sono proprio quegli uomini che le donne cercano, ma non sanno riconoscere. Anche perché poi la vita è buffa e capita di ritrovarsi in un tinello marron, con lei austriaca che non capisce e tu che non parli bene il tedesco, scusa, pardon. Uomini, quelli di Conte, che dietro le parole si accontentano e alla donna non chiedono poi molto, basta «un sandwich e un po’ d’indecenza».
Uomini, signori, che sanno perdere, allontanarsi piano, senza fretta, con lo sguardo di chi ne ha viste tante ed ha le spalle larghe per lasciarti andare, senza rabbia, baby, senza rancore. Anche se poi davvero non capisci perché fai un passo indietro, rinunciando al ritmo di questo carnale tango, rinunciando alla più umana dichiarazione d’amore che un uomo possa fare: «Libertà e perline colorate/ecco quello che io ti darò/e la sensualità delle vite disperate/ecco il dono che io ti farò/donna che stai entrando nella mia vita/con una valigia di perplessità». Certo, certo, un gelato al limone. E allora entra e fatti un bagno caldo, c’è un’accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo. It's wonderful. Ripetuto tre volte.
Ma il finale in questa storia, in fondo, è già scritto.

L’ultima cosa che si può dire a una donna è «Via, via, vieni via con me. Entra in questo amore buio, non perderti per niente al mondo, lo spettacolo d’arte varia, di un uomo innamorato di te». E come chiede Conte a Romana: «Pensi che lei capirà?».

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