Il Papa prega nella Moschea Blu

Andrea Tornielli

nostro inviato a Istanbul

Due minuti destinati a entrare nella Storia e a chiudere definitivamente l’incidente di Ratisbona. Papa Ratzinger è immobile, senza scarpe, con le babbucce bianche che gli sbucano da sotto la tonaca. Ha le mani aggrappate l’una all’altra, che si appoggiano alla croce pettorale d’oro. Ha gli occhi socchiusi e prega in silenzio, con il volto disteso, muovendo di tanto in tanto, quasi impercettibilmente, le labbra. Benedetto XVI sta pregando. Sta pregando in una moschea, davanti al mihrab, la nicchia di marmo che indica la direzione della Mecca. Sta pregando nella grande Moschea Blu di Istanbul, affiancato dal Gran muftì della città, Mustafà Cagrici, che lo ha appena invitato a quel gesto di raccoglimento e che finisce qualche istante prima del suo illustre ospite. Immagini che fanno subito il giro del mondo e servono a rendere visibile quella stima e quel rispetto per i credenti dell’Islam che Papa Ratzinger non ha mai cessato di affermare e che anche qui in Turchia ha ribadito, richiamando il comune riferimento ad Abramo.
Poco prima, quando Benedetto XVI e il leader religioso islamico erano arrivati davanti al mihrab, il muftì aveva detto al Papa: «Qui ci si ferma a pregare per trenta secondi, per prendere serenità». Poi aveva cominciato un’orazione a voce alta, in arabo. Ratzinger allora ha socchiuso gli occhi, ha unito le braccia e si è raccolto in preghiera rimanendovi ben più dei trenta secondi richiesti, costringendo il muftì e tutti gli altri presenti ad attendere, in un irreale silenzio, che avesse terminato. Quindi in segno di rispetto ha chinato leggermente il capo in direzione della nicchia, e ha detto al leader islamico: «Grazie per questo momento di preghiera». «Il Papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero», conferma subito dopo padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Così, questa visita «fuori programma», durata una manciata di minuti, è diventata uno dei momenti culminanti del viaggio in Turchia che oggi si conclude. È vero che anche Papa Wojtyla, nel maggio 2001, pregò all’interno della moschea degli Omayyadi, a Damasco. Ma allora lo fece poggiando la mano tremante sul sarcofago di marmo che racchiudeva una reliquia attribuita a Giovanni il Battista, in un luogo che prima di diventare sacro all’Islam era stato cristiano: la moschea venne infatti costruita dove c’era una chiesa. Ieri, invece, non c’erano tracce cristiane nella immensa e suggestiva costruzione che copre – come ha spiegato il muftì al Papa – «2.600 metri quadrati destinati alla preghiera e può accogliere ottomila persone». Ieri, soprattutto, a Istanbul c’era il nuovo Papa. Non c’era Giovanni Paolo II, il Pontefice al quale qualcuno, anche dentro la Chiesa, ha rimproverato un atteggiamento troppo dialogante e remissivo con i musulmani, da lui chiamati in più occasione «fratelli».
Il Gran muftì, uno dei 38 teologi musulmani firmatari della lettera di pacificazione e di approfondimento dei temi affrontati da Ratzinger a Ratisbona, ha regalato al Papa una mattonella di maiolica dello stesso colore di quelle che ornano superbamente il tempio musulmano, raffigurante la colomba e un ramoscello d’ulivo, simbolo di pace. Anche Ratzinger aveva portato un dono, un piccolo mosaico, raffigurante delle colombe che si abbeverano a un’unica coppa. Lo stesso simbolo di pace. «È una bella coincidenza!», commenta il Papa. Quando l’imam della Moschea Blu gli fa vedere il libro di preghiere, e gli spiega che «comincia con la parola “Allah”, perché “Allah” è il nome di Dio», Ratzinger vi appoggia sopra la mano e dice: «Preghiamo per la fratellanza e per tutta l’umanità». «Questa visita – ha concluso Benedetto XVI – ci aiuterà a trovare insieme i modi, le strade della pace per il bene dell’umanità».
«Mi sembra che siamo andati anche oltre il superamento di Ratisbona – ha commentato padre Lombardi – e che in un certo senso Ratisbona abbia dato un frutto positivo obbligando a riprendere e rilanciare il rapporto con i musulmani con serietà, profondità, cercando di andare a chiarimenti da una parte e dall’altra. Mi sembra che siano stati fatti passi significativi nel senso del rispetto reciproco ma anche della sincerità reciproca».
Poco prima di entrare in moschea, il Papa aveva visitato l’ex basilica di Santa Sofia, trasformata in moschea dagli Ottomani e in museo da Atatürk. Accompagnato dal direttore del museo, Benedetto XVI non è salito a vedere i preziosi mosaici bizantini scoperti sotto le stuccature che li avevano coperti. E soprattutto non si è raccolto in preghiera, come invece fece, dopo aver chiesto e ottenuto il permesso, Paolo VI nel luglio 1967. La direzione del museo temeva che anche un piccolo gesto di raccoglimento potesse avere l’effetto di una riconsacrazione.

Prima di andarsene, Ratzinger ha scritto, in italiano, una frase sul libro d’oro dei visitatori: «Nelle nostre diversità ci troviamo davanti alla fede del Dio unico; che Dio ci illumini e ci faccia trovare la strada dell’amore e della pace».

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