Cultura e Spettacoli

Paquot e i forzati del lusso obbligatorio

L’evoluzione del superfluo in un saggio che sfocia nella banalità

«Quando affrontiamo il tema del lusso la prima regola che dobbiamo far nostra è: basta sensi di colpa». Così parlò Thierry Paquot, professione filosofo, che in Elogio del lusso (Castelvecchi, pagg. 154, euro 12,50) punta a convincerci dell’«utilità dell’inutile», come il pamphlet sottotitola. L’excursus storico alla ricerca dei percorsi del possesso esclusivo e degli studiosi che se ne sono occupati è ben documentato e interessante. Ma se vogliamo conoscere la tesi dell’elogio, che ci si augurerebbe provocatoria e originale, allorché viene esposta nelle ultime pagine con eccessiva semplicità ci chiediamo: tutto qui?
Paquot ha condotto studi approfonditi per concludere che il lusso è motore di progresso, evoluzione culturale e crescita economica. Non si può negare che senza l’aspirazione al «di più» e al bello l’umanità non avrebbe fatto gli stessi sforzi per migliorare ed esplorare, e non avrebbe creato cose meravigliose. Di qui l’autore passa all’analisi del pensiero utopico e delle sue relazioni con il lusso, per constatare che sono stati prodotti pensieri molto diversi; da un lato sognatori che auspicavano l’equa ripartizione delle ricchezze, dall’altro teorici della diversificazione dei desideri e della massimizzazione dei piaceri individuali.
Ora, è facile essere d’accordo sul fatto che il lusso ha subìto soprattutto di recente molte trasformazioni, e si è evoluto in un consumo sfrenato sempre più esclusivo per ricchi che non sono mai stati così ricchi, e in un consumo di massa di buon livello accessibile a tutti e senza frontiere. E che entrambe le declinazioni del lusso confinano il piacere in un ambito di acquisto e di utilizzo materiale. Però siamo anche d’accordo sul fatto che il vero lusso sia migrato oltre il materiale, e appartenga alla sfera dell’immaterialità. Ecco dunque le magiche parole di Paquot: Tempo, Silenzio, Spazio. E da questa formula magica all’enunciato di innocua banalità, il passo è breve. «Tre valori che invece vengono più che mai bistrattati e che formano le tre punte della stella del lusso, il cui splendore è offuscato dal “mercato globale”, dalla banalizzazione mondializzata dei prodotti di consumo e della maggioranza dei servizi», scrive. E ancora: «Il mio concetto si basa sull’indipendenza mentale e sensoriale di ciascuno di noi di fronte ai miraggi del mercato. Questa autonomia, che impedisce di rimanere ancorati a un marchio e all’immagine che provano a incollarvi addosso, non è soltanto per i ricchi, ma dipende dalla capacità di interagire con i propri desideri».
Dall’autore del fortunato L’arte della siesta ci saremmo aspettati qualcosa in più.

Forse anche qualche enunciato meno conformista proprio sulla eliminazione dei sensi di colpa nel godere di puri, squisiti piaceri materiali.

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