La parabola del sindacato di Epifani: da Marx a Totò

L’insistenza dei vertici Fiom della Cgil a non voler firmare il patto Fiat a Pomigliano, che gli altri sindacati hanno siglato, dà l’immagine di un’organizzazione sindacale, ormai minoritaria, passata da Marx a Totò. I punti sui cui la Fiom resiste, consistono nelle rinuncia dei lavoratori a scendere in sciopero, quando si devono fare straordinari in orari scomodi e nelle conseguenze pecuniarie negative per le assenze ingiustificate, quando gioca la Nazionale. Impegni che vengono richiesti, perché tali episodi si sono ripetuti più volte. Nel caso della Nazionale, i tassi di assenteismo sono arrivati al 30%.
È incredibile che si voglia mandare a monte un’intesa che tocca direttamente l’occupazione di 5mila persone e, indirettamente, di altre 10mila, per queste ragioni. La Fiom non ha firmato neppure quando la Fiat ha accettato la proposta, degli altri sindacati, di una commissione di garanzia paritetica con i metalmeccanici, per le controversie sulle penalizzazioni per assenteismi ingiustificati e scioperi pretestuosi. L’impegno di efficienza comporta anche 18 turni settimanali (ma non quello notturno del sabato) per utilizzare al massimo gli impianti, 120 ore di straordinari obbligatori, per consentire all’azienda di accelerare la produzione quando la domanda tira e 3 pause di 10 minuti anziché 2 di 20 ciascuna. Gli straordinari sono pagati e, quindi, è un impegno che giova all’azienda e al bilancio del lavoratore. E che avrà gli sconti fiscali stabiliti dal decreto anticrisi. La Fiat di Sergio Marchionne non è più la Fiat lassista e politicizzata che strizza un occhio al sindacato e l’altro ai partiti avendo bisogno di loro per mungere soldi allo Stato. E come dice lo stesso Marchionne, le auto si possono produrre in Polonia o in Serbia dove le tasse sono minori, e l’operaio ha un minor salario e minori benefici sociali. Gli uomini del Sud che negli anni del boom economico andavano a Torino con la valigia di cartone a lavorare alla Fiat si sono impegnati per il proprio benessere, in condizioni difficili. L’Italia è diventata, così, una potenza industriale.

E se tale vuole restare, occorre adottare una linea per cui il salario non è una variabile indipendente (o dipendente dal desiderio di vedere la partita), ma è connesso al rendimento del lavoro, nella competizione internazionale. Peccato che questo non venga applicato a tutte le altre sfere.

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