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Il paradosso di Roma Nella città dei ministeri non si fanno visite

Sembra una zona franca. Invece siamo nella Capitale. Dove le visite fiscali sono un optional più che un obbligo per le Usl di riferimento. I fannulloni perseguitati da Brunetta qui non controllano. I medici fiscali sono pochi e raramente mettono piede nelle case dei dipendenti dei ministeri. Un paradosso. Ma la realtà emerge dalle parole di Alberto Polistena, direttore della medicina fiscale della Usl del terzo distretto: «Quest’anno da giugno a ottobre sono state richieste 3856 visite fiscali ma noi ne abbiamo evase solo 158».
In pratica, dal decreto Brunetta solo il 4 per cento degli ammalati pubblici che rientrano nel terzo distretto hanno avuto il dispiacere di vedere il medico fiscale varcare la soglia della propria abitazione. Anche l’anno scorso, prima della rivoluzione Brunetta, non andava meglio. «Ci sono state 15mila richieste – spiega Polistena – ma le visite effettuate sono state 356». Precisamente il 2,4 per cento. Di male in peggio, insomma.
Ma perché a Roma nessuno controlla nessuno? Semplice: «Perché gli enti pubblici non pagano le visite fiscali e quando arrivano le richieste noi non le accogliamo». Polistena spiega che due anni fa la Regione Lazio – come del resto quasi tutte le regioni del centro nord – ha diramato una circolare in cui si sostiene che anche gli enti pubblici, così come le aziende private, debbano pagarsi le visite fiscali richieste perché questo servizio non è compreso nei «Lea», i livelli essenziali di assistenza. Dunque, i ministeri dovrebbero sborsare i soldi alle Usl per essere controllati. «Quando riceviamo una richiesta mandiamo comunicazione all’ente per emettere fattura. E loro non ci mandano i dati. Così noi non ci muoviamo».
Ma quali sono gli enti pubblici che fanno spallucce? L’elenco è sterminato. Le scuole non vengono neppure prese in considerazione: non paga nessuno. «Anche prima dell’arrivo di Brunetta per la verità venivano fatte pochissime visite, ma ora praticamente nessuna», racconta candidamente Polistena, che si sente in una botte di ferro e in prossimità della pensione: «Non possiamo disattendere la delibera regionale».
Un ragionamento inattaccabile da un punto di vista burocratico. Anche perché pure la Cassazione è intervenuta in questa annosa questione e ha dato ragione alle Usl che battono cassa. Così, a Roma, cuore di tutti i burocrati dello Stato, impazza la deregulation. I dipendenti del ministero dei Beni Culturali non vengono controllati (il ministero non paga), quelli dell’Agenzia delle Dogane nemmeno (non paga), idem il personale della Commissione tributaria provinciale, quello della Dia, la direzione investigativa Antimafia e così pure quello del ministero dell’Interno. Pure l’Istituto superiore di Sanità non paga un euro, e così il Consiglio superiore dei Lavori pubblici e la Biblioteca nazionale. Persino in tribunale ci sono sezioni che pagano e altre no.
E alla presidenza del Consiglio? Udite udite: ci sono uffici disponibili a coprire le spese delle visite fiscali e altri no. E al ministero della Funzione pubblica, cosa succede? «Nulla, perché in due anni non ci è mai arrivata alcuna richiesta di vista fiscale». Da una Usl all’altra si cambia criterio. E se si chiedono i numeri delle visite fiscali alla Usl E, si scopre che su 10mila richieste ben 6500 sono rimaste nel cassetto.
Ma qui non si fissano sulla mancata emissione della fattura. «Noi le visite le facciamo lo stesso anche se non ci pagano. Però i medici sono pochissimi e facciamo quello che possiamo», ammette il direttore Maurizio Ferraresi allargando le braccia. Gli fa eco il dottor Evangelisti: «Cerco di controllare una decina di casi al giorno, ma da noi arrivano centinaia di richieste.

E non possiamo fare i miracoli».

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