Parigi val bene una pace. Anche se molto provvisoria

Ci sono anni fatali ma anche luoghi fatali. Bene, se c’è un luogo fatale per la storia del Novecento, inteso come secolo breve nato dalla Prima guerra mondiale, quel luogo è Parigi, e se c’è un anno, quell’anno è il 1919. Perché se è vero che destini di popoli e nazioni sono stati modellati dalla ferocia della Grande guerra - enorme tritacarne che mobilitò le risorse di un continente e che lanciò gli Stati Uniti nell’empireo della politica internazionale - le scelte politiche, i confini e le premesse del futuro finirono nero su bianco a Parigi, fra il gennaio e il giugno 1919. In quei mesi la Ville Lumière fu davvero la capitale del mondo, la capitale della politica planetaria che fissò le linee di forza che modellarono le forme dell’intero secolo a seguire.
Quindi è un peccato che la manualistica storica si soffermi così poco, su quell’anno. Certo, solitamente si dà conto di trattati e spartizioni territoriali, ma, per lo più, non si dice molto dei meccanismi della politica che si dispiegarono all’ombra della Tour Eiffel. Se c’è un libro che colma questa lacuna è Sei mesi che cambiarono il mondo di Margaret MacMillan, di cui da domani il Giornale offre in allegato il secondo volume. Libro con cui la MacMillan, rettore del Trinity College e docente di storia all’Università di Toronto, ha vinto il prestigioso «Samuel Johnson Prize».
Il saggio (ponderoso, ma non pesante) rende bene soprattutto il clima in cui una folla variegata, e per certi versi confusa, di Grandi della Terra cercò la formula della pace universale, barcamenandosi fra enormi speranze, rancori insanabili e il peso delle aspettative di milioni di uomini e donne che volevano credere di non aver sofferto invano. Perché se, diversamente che nel post Seconda guerra mondiale, le grandi città europee e la maggior parte degli apparati industriali erano ancora tutti spettralmente intatti, non lo erano più i popoli. Per usare le parole della MacMillan, l’Europa sapeva di essersi «privata di quei giovani che avrebbero potuto essere i suoi scienziati, i suoi poeti, i suoi leader, privata di quei figli che quegli stessi giovani avrebbero potuto generare». E i popoli guardavano alla capitale francese aspettando un futuro migliore.
Così per le strade di Parigi si aggiravano il potentissimo presidente americano Woodrow Wilson e il primo ministro italiano Vittorio Emanuele Orlando. Ma anche i delegati armeni che reclamavano l’indipendenza, il comitato parigino dei russi carpatici, delegati greci, Lawrence d’Arabia con tanto di turbante e l’austero David Lloyd George. Senza contare banchieri, affaristi, giornalisti e rappresentanti degli sconfitti chiamati a pagare i danni.
Da questo caos fu giocoforza far emergere un ordine nuovo. Un ordine che scontentò i perdenti (la Germania, nonostante i buoni uffici americani, subì condizioni dure), ma anche alcuni vincenti. Vedasi il caso dell’Italia che arrivò ad abbandonare il tavolo delle trattative (quando il ministro Orlando finì in lacrime, non fu proprio un bello spettacolo).
A scontrarsi furono poi due diverse concezioni della politica, quella di Wilson che parlava di autodeterminazione dei popoli (salvo che questa non ledesse gli interessi americani) e quella delle potenze europee che credevano nella spartizione e nei trattati. A prevalere non fu nessuno dei due indirizzi, bensì, caso per caso, sotto le spinte del momento e sotto il peso delle pressioni che le nazioni erano in grado di esercitare, si scelse l’una o l’altra strada. Così, se l’Italia si vide rifiutare molto, nessuno mise davvero in discussione la possibilità di Francia e Gran Bretagna di mettere in atto il famoso accordo Sykes-Picot (risalente al 1916) per spartirsi il Medio Oriente. Quale sia stato poi l’effetto del coinvolgimento di Francia e Gran Bretagna nel settore mediorientale è ben noto, e per certi versi le conseguenze arrivano sino ai giorni nostri. Esattamente come dai pianti di Orlando alla furia nazionalista dei fascisti il passo fu breve. Senza contare i tremendi risultati dell’umiliazione della Germania.
Ma l’opera della MacMillan insegna che alla Conferenza di pace non si deve applicare troppo senno del poi. Nel mondo di allora, e anche nel nostro, fra decisione e realizzazione i tempi sono lunghissimi. E i governanti seduti sulle poltrone parigine sapevano di dover fare in fretta e che i loro popoli non avrebbero sopportato altre sofferenze. Essendo uomini, sotto questo peso cercarono il meno peggio, spesso sbagliando.

Così quando Woodrow Wilson, lasciando la capitale francese, disse alla moglie «bene, ragazza mia, è finita, e poiché nessuno è soddisfatto ciò mi fa sperare che abbiamo concluso una pace giusta», probabilmente mentiva a lei e a se stesso. Lo fece scientemente? Non lo sapremo mai.

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