Cinema

La parodia degli horror che piace più degli horror

Il capolavoro "Frankenstein Junior" di nuovo nei cinema (quasi) mezzo secolo dopo l'uscita

La parodia degli horror che piace più degli horror

Provate a pensare a una delle commedie che sono al cinema oggi e immaginate quale di queste potrebbe essere omaggiata, come cult, tra mezzo secolo. La risposta è molto facile. Nessuna. Perché adesso, i film, li scrivono tutti col manuale Cencelli del politicamente corretto. Prima fanno una trama il più inclusiva possibile e poi ci costruiscono addosso qualche gag o battuta. E non perché Hollywood sia realmente tutta liberal, ma per seguire il sacro verbo dello show business che in questo momento punta all'«All Inclusive». Va dove ti porta il wallet, insomma, esattamente come accade, in Italia, per certi autori col pugno chiuso a sinistra, ma col portafoglio aperto a destra. Oggi, un capolavoro come Frankenstein Junior lo avrebbero girato? Quasi certamente, no.

E se, al cinema, visto quello che passa il convento, siamo qua ancora a celebrarlo, rimandandolo tre giorni in sala, dal 27 febbraio al 1° marzo, grazie a Nexo Digital, in una versione del film restaurata e digitalizzata, con selfie accanto al poster celebrativo e/o speciali allestimenti a tema, un motivo ci sarà.

«Potrebbe essere peggio, potrebbe piovere»; «Si può fare!»; «Lupo ulu-là, castello ulu-lì»; «Se-da-ta-vo??». Basta citare una di queste battute per far scattare, in fan e non, la nostalgia del capolavoro scritto da Gene Wilder e Mel Brooks. Il primo lo interpretò anche, il secondo lo diresse. Così come la gobba di Igor che si spostava continuamente da destra o sinistra (gag nata da una trovata di Marty Feldman) o i cavalli del castello che nitrivano di terrore ogni volta che si pronunciava il nome di Frau Blücher. Era il 15 dicembre 1974 quando questa irresistibile commedia usciva nei cinema americani, diventando campione d'incassi e guadagnandosi anche due nomination agli Oscar e altrettante ai Golden Globe. Insomma, quest'anno siamo a quota 49, a un passo dalle 50 candeline, ma, da allora, nessuno è riuscito a fare una parodia così divertente degli horror che, dopo dieci lustri, resta di gran lunga la migliore nel suo genere. Tutti i classici luoghi comuni dei film del brivido vengono presi in giro in maniera intelligente, esattamente come la goliardica volgarità dei doppi sensi, a partire dal celeberrimo Schwanzstück, l'enorme organo sessuale della Creatura, ribattezzato così grazie a un gioco di parole yiddish.

Mel Brooks aveva cinque anni quando, nel 1931, andò a vedere, Frankenstein di James Whale, tornando a casa terrorizzato. Un film che era stato girato seguendo le tecniche del cinema impressionista tedesco, che sapeva giocare divinamente con luci e ombre. Da qui, l'idea di rifarne una parodia a distanza di anni, rigorosamente in bianco e nero. Si affidò, non a caso, alla fotografia di Gerald Hirschfeld, in modo da giocare con campi lunghi scuri e primi piani chiari, così da esaltare i tempi comici dei protagonisti. E quella trovata è stata una delle chiavi del successo del film.

I fan conosceranno a memoria ogni battuta di Frankenstein Junior, ma, magari, qualcosa non sanno. Ad esempio, che le due protagoniste femminili, Madeline Khan e Teri Garr, originariamente, dovevano invertirsi i ruoli di Elizabeth, la fidanzata di Frankenstein e di Inga, la sua assistente con accento teutonico. La Kahn rifiutò Inga, volendo fare, a tutti i costi, la parte dell'amante della Creatura e la scelta fu azzeccata vista la caratterizzazione iconica che diede al personaggio di Elizabeth. Così, Brooks chiamò la Garr chiedendole se volesse fare un altro provino per la parte dell'assistente tedesca: «Vell, yes, I could do zee German ackzent tomorrow, I could come back zis afternoon», rispose prontamente l'attrice e la parte fu sua, senza provino.

Sapete qual è stata la scena ripetuta più volte? Quella dell'arrivo di Elizabeth al castello. Del tutto improvvisata. Brooks chiese a Feldman, attore inarrivabile quanto a tempi comici, di azzannare la pelliccia che la donna aveva al collo. Solo che, ogni volta, gliene restava in bocca un pezzo, facendo scoppiare tutti a ridere e obbligando Mel a rifare continuamente la scena. A proposito di aneddotica. Gene Hackman, che si era ritagliato un cameo nel ruolo dell'eremita cieco che versa la minestra calda sulla povera Creatura, scoprì del progetto del film, giocando a tennis con Wilder. Entusiasta, si offrì di lavorare gratis, pur di far parte dell'operazione, tanto che, all'inizio, il suo nome non comparve nei crediti del cast. C'era, invece, quello di Ken Strickfaden, il realizzatore dei macchinari elettrici utilizzati per il Frankenstein del '31. Li aveva conservati in garage e Brooks, scoprendolo, si accordò per noleggiare il tutto, dandogli anche il credito, nei titoli, cosa che non aveva ricevuto nel film originale. Il film dura 105 minuti, ma originariamente era lungo quasi il doppio. Però, Wilder e Brooks si resero conto che molte battute non funzionavano e decisero, al montaggio, di tagliarle. Ripensando a quanto durano oggi i film, verrebbe da dire che la lezione non è stata imparata. Che poi, non sempre l'originale ha avuto una adeguata traduzione. «Si può fare!», ad esempio, era un più possibilista «It could work!». Un po' come il «Se-da-ta-vo??», ciò che di meglio si era trovato per tradurre il gioco di parole originario «seda-give/seda-tive». Eppure, nonostante questo, il film è diventato immortale, perché alla base c'era una storia di vera amicizia tra Gene e Mel e un lavoro comico che travalicava ogni traduzione, interpretato da artisti con la «A» maiuscola.

Oggi, un film così, non «si può fare!» più, purtroppo.

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