Cristiano Gatti
Due mesi di coprifuoco. Sparito lui, il che può fargli solo bene. Ma spariti soprattutto quelli che lo esibivano come geniale innovatore dell'Italia alla riscossa. Per delle felpe, poi. Di tutto questo, quasi niente sopravvive: solo il sadismo delle barzellette su Internet e degli striscioni negli stadi. Il resto è solo un ricordo lontano, come di un'Italia grottesca che tutti fingono di non conoscere. Quanto al seguito della storia, un mistero. Un mistero rispettato per pietà, forse, in piccole dosi. Ma più che altro per deferenza al nome da disturbare: Elkann in Agnelli. Significa ancora qualcosa.
Due mesi. Quando già cominciano a sembrare due anni, la penombra che copre Lapo, il lapismo e i lapisti si squarcia d'improvviso, per la prima volta dopo la nottata choc a base di cocaina e di azzimati transessuali pugliesi. A uscire dal silenzio, con innegabile dignità, non sono certo i faciloni adepti dell'allegro movimento economico, che aveva come simbolo lo «smile»: quelli, sparita la convenienza, adesso negherebbero pure d'essere nati. Tocca direttamente a lui, al giovane finito in testacoda per eccesso di velocità, rimettere assieme i primi cocci del disastro. Non è una vera intervista: è il resoconto di una chiacchierata che Lapo ha tenuto a New York con l'amica giornalista di Vanity Fair Saira Faillaci, casualmente incontrata tra i tavoli di un ristorante italiano.
Per la serie come ti va, il giovane Agnelli spiega che sta frequentando un centro specializzato in terapie di gruppo. «Qui le dipendenze sono trattate come malattie, una volta che ti sei curato torni a fare la tua vita di prima e nessuno ti nega un'altra possibilità. Non come in Italia, dove la dipendenza da droghe viene considerata solo un vizio, con la conseguenza che tutti si sentono in diritto di giudicarti e di condannarti. Certo, curarsi è dura. Ma sento di potercela fare, e senza prendere farmarci. È una questione di forza di volontà, una sfida con me stesso».
Dopo essersi ritagliato un ruolo in azienda e nel suo Paese sparando a tutte le ore il vocabolo sfida - la sfida del mercato, la sfida del futuro, la sfida della concorrenza internazionale, la sfida della competitività, la sfida dell'innovazione -, Lapo ne affronta una finalmente concreta, reale, dolorosa. Molto più rischiosa delle tante che ha simpaticamente lanciato: in gioco, se stesso. Sa bene che l'esito non è scontato. Non è come la sfida della creatività, che basta raccontarla bene ai convegni. Tanti, prima di lui, l'hanno fallita. O ancora non l'hanno vinta, neppure a distanza di anni. Sì: come amava dire lui stesso nei ricevimenti in terrazza, c'è molto da lavorare.
La grinta, almeno quella, è intatta. Lapo mostra alla cronista due ideogrammi orientali tatuati sul polso: «Sai che significa? Non mollo mai. Ora devo concentrarmi su me stesso, guardarmi allo specchio e capire perché sono arrivato a fare quello che ho fatto. Poi, un giorno, vorrei tornare in Italia, al mio lavoro. Ma dopo, quando sarà il momento».
Prima, specchiarsi nel proprio capolavoro di rovina e di imbarazzi richiederà un certo tempo. Al momento, siamo ancora nella fase della rabbia. Una buona dose ne coltiva verso il prossimo: «Mi hanno fatto male le bugie scritte sul mio conto, e sulle circostanze e sulle persone che mi hanno soccorso. Ma va bene così, la gente pensi quello che vuole. L'importante è che sappia io come sono andate realmente le cose». Ma è davanti al famoso specchio che la rabbia monta: «Sono incazzato con me stesso, perché ho commesso un enorme sbaglio. Però nessuno è perfetto, non si può vivere fingendo di esserlo. Io sono una persona autentica, non mi piace nascondermi dietro una maschera, come fanno in tanti».
Nessuno è perfetto, non si può vivere fingendo di esserlo: forse sta tutta qui la chiave di questo patetico naufragio sulla terra ferma. Chi può dirlo. È la famosa teoria di quel cognome troppo grande, anzi mastodontico, da portare in giro sempre in un certo modo, come pretende il blasone e come pretendono le liturgie del potere. Lapo ha risolto il problema a modo suo: prendendosi tutte le libertà, vivendo da acrobata. Coi risultati messi a verbale, in una notte memorabile.
Di quello stile, oggi, sopravvive più che altro l'orgoglio: «Perché dovrei vergognarmi di muovermi in pubblico? Non ho niente da nascondere, non ho ucciso nessuno». Persino a Martina Stella, la bambolona che tre minuti dopo l'epilogo s'era già chiamata fuori dalla storia, Lapo manda parole sprezzanti: «Di donne, fuori, ce ne sono milioni. Meglio saperle in tempo, queste cose. Almeno capisci che persone hai vicino...».
Ecco, sono proprio questi i compiti a casa della nuova scuola di vita: capire quali persone hai vicino. Buona fortuna Lapo, è una missione impossibile. Poi, un giorno, con calma, chissà che non gli riesca anche l'impresa di chiedere scusa. A volte, aiuta più delle medicine.
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