Non parla a voce alta, Sergio Ricossa, non lo ha mai fatto, ma le sue parole sono di quelle che lasciano il segno sempre. Non usa fraseggi difficili e le parole ricercate, è un paroliere sobrio. Gli amici più stretti si ricordano soltanto di una volta in cui, riferendosi al figlio docente di musica, lo chiamò «melomane», salvo correggersi subito. Un marchio di fabbrica che ce lo ha reso tanto caro, e ci ha appassionato alle numerose battaglie combattute da questo vulcanico ottuagenario torinese.
Noi del Cidas lo abbiamo adorato quando, insigne accademico, ha lasciato in braghe di tela gli economisti che si credono scienziati (Maledetti economisti), o quando negli anni Settanta lanciò una delle più memorabili crociate anti-fisco (Fisco: la nuova schiavitù) della storia italiana recente.
Delicato, eppure sempre graffiante, Sergio Ricossa appartiene a quegli individui capaci di cogliere la realtà con i propri occhi, senza cadere nella sfilza di luoghi comuni di cui è costellata la quotidianità. Non vuole che leconomia sia «perfetta», gli basta che sia libera. Lo fanno sorridere gli economisti che pontificano seduti su calcoli tanto complessi quanto privi di buon senso: leconometria, cui si era avvicinato, gli pare una piccola divinità nellOlimpo delleconomia eletta a culto.
Non ama il buonismo che dilaga, gli preferisce il gusto sapido della battuta dissacrante degli avi toscani: «Agli zoppi, calci negli stinchi».
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